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La rete calabrese con le maglie in Ticino

La stazione di Lamone-Cadempino.
Piu di 5’000 persone originarie di Mesoraca vivono tra Lugano e Bellinzona, soprattutto a Lamone. Secondo una fonte giudiziaria, "questa concentrazione fa sì che migliaia di mesorachesi onesti e 'normali' diventino vittime o potenziali complici". Keystone / Karl Mathis

Dopo otto anni di indagini, un recente blitz condotto da alcuni distaccamenti dei carabinieri delle province di Crotone e Cosenza, in Calabria, ha messo fine ai succulenti affari di un clan della 'Ndrangheta, la cosca Ferrazzo, basata a Mesoraca, in provincia di Crotone.

Mesoraca è un paese di circa 6’000 abitanti, abbarbicato su una collina, “densamente popolato da criminali, per dirla in modo gentile”, secondo le parole dell’ufficiale dei carabinieri che ci ha accompagnato sul posto, commentando pure il “più puro stile mafioso” delle baracche e delle case incompiute. L’operazione ha portato all’arresto di 31 persone.

Un dato poco conosciuto in Svizzera, ma che sta destando preoccupazione in Ticino: più di 5’000 persone originarie di Mesoraca vivono tra Lugano e Bellinzona, formando una sorta di “Mesoraca 2”. Secondo una fonte giudiziaria, “questa concentrazione senza precedenti fa sì che migliaia di mesorachesi onesti e ‘normali’ diventino vittime o potenziali complici, per il semplice motivo che le loro origini li rendono più vulnerabili”. Una situazione che avvantaggia gli altri, quelli meno onesti e più pericolosi, i cui “legami con la Svizzera sono stati dimostrati”, e in larga misura.

Un gruppo di “belle persone”

Nell’ordinanza del tribunale di Catanzaro, incaricato delle indagini, si legge che molti dei reati contestati sono stati commessi da questi criminali “nelle province di Crotone e Varese e in Svizzera”, con l’aggravante dell'”appartenenza a un’associazione armata”.

Oltre ai “classici” traffici di armi e droga sulla rotta svizzero-calabra, all’usura, al riciclaggio di denaro sporco e all’estorsione aggravata, sono stati riscontrati alcuni elementi sorprendenti, se visti dalla Svizzera, ma che la dicono lunga sull’inventiva e sulla capacità di rinnovamento delle mafie: il monopolio del “commercio di legname” grazie a società complici, che vanno dal taglio illegale al traffico di trucioli di dubbia provenienza, trattati come puri rifiuti, e l’interesse per una centrale a biomasse.

I principali imputati, in custodia cautelare in Calabria, non sono gli ultimi arrivati, a cominciare dal capo della cosca, Mario Donato Ferrazzo, detto “Topolino”. Ci sono poi diversi “ticinesi”, tra cui un affiliato ordinario domiciliato a Caslano, S.F.*, coinvolto nel traffico di stupefacenti, e due pezzi da novanta: G.G., il cui figlio vive nel Luganese, e suo cognato, G.F., con una fedina penale piuttosto corposa.

La giustizia italiana li ha descritti come “membri di spicco” del gruppo Ferrazzo fin dagli anni ’90, se non addirittura prima. G. F. è noto per i molti arresti subiti e per aver scontato diverse condanne qua e là in Italia: arresti domiciliari a Firenze e nella sua casa di Mesoraca, accompagnati da una misura di sorveglianza speciale e dalla menzione della sua “pericolosità sociale”. Completano il suo quadro criminale, le violazioni del codice urbanistico italiano, che G. F. non ne ha menzionato al momento della richiesta del permesso da frontaliere in Svizzera (permesso G).

Nel 2018 ha potuto raggiungere il figlio, Andrea F.*, che vive in Ticino dal 2015 e che gestisce diverse aziende, alcune delle quali sono filiali svizzere di aziende di Mesoraca. Entrambi hanno dato molto filo da torcere all’ufficio legale della Fedpol, che sta cercando di espellerli, e questa l’operazione dei carabinieri giunge a d’uopo.

Altri sviluppi

La lunga strada dell’espulsione

Nel luglio 2019 Fedpol ha informato G. F. e A. F. che stavano per essere espulsi dalla Svizzera, una misura accompagnata da un divieto di ingresso di 15 anni per il padre e di 10 anni per il figlio. Questa decisione è stata motivata dalla minaccia che la loro presenza rappresentava “per la sicurezza interna della Svizzera”. Per quanto riguarda A. F., senza essere accusato di appartenere alla ‘Ndrangheta, le autorità elvetiche gli rimproverano tra le altre cose i suoi legami familiari con importanti membri dell’organizzazione – a partire dal padre -, il fatto che “si muove nella sfera di influenza di questi individui senza aver fatto nulla per sottrarvisi” e il suo ruolo nell’amministrazione di società “probabilmente fittizie”, dimostrando comunque di essere coinvolto negli affari della cosca.

In Svizzera è stato indagato per vari atti di violenza. Padre e figlio hanno rigettato tutte le accuse e hanno negato di appartenere a una qualsiasi organizzazione criminale, ma la Fedpol li ha formalmente espulsi nell’ottobre 2019. Per poi tornare, visto che il Tribunale amministrativo federale (TAF) ha annullato la decisione di espulsione nel maggio 2020. Nel ricorso presentato al TAF, l’avvocato dei due uomini aveva abilmente attaccato – e vinto – nel merito, sostenendo che la Fedpol non aveva tenuto conto dell’Accordo sulla libera circolazione delle persone, che si applica a loro in quanto cittadini europei e consente loro di entrare e lavorare liberamente in Svizzera. A meno che la loro presenza non costituisse una minaccia reale, come sosteneva la Fedpol.

Ma per il TAF, la suddetta minaccia, in questo caso il passato criminale di Giovanni F. e il fatto che il “biotopo” mafioso è caratterizzato dall’educazione precoce dei figli maschi a diventare cloni dei loro padri, non era sufficientemente documentata. I giudici amministrativi hanno quindi concluso il procedimento evidenziando che “la mancata considerazione dell’accordo (aveva inficiato) la motivazione del provvedimento nel suo complesso” e costituiva una violazione del diritto al contraddittorio dei ricorrenti.

La Fedpol ha notificato a G. F. una nuova procedura di espulsione, contro la quale l’interessato ha presentato ricorso. Nel frattempo, però, le circostanze sono cambiate e l’apparato giudiziario italiano con l’ultimo blitz del 3 ottobre ha appena fornito alle autorità svizzere   .

* Nomi noti alla redazione.

Le pene in Svizzera sono meno severe che in Italia. L’espulsione rimane efficace.

La lotta alle mafie ha subito un’accelerazione negli ultimi anni – ma la Confederazione aveva forse un’altra scelta? – dopo decenni di inerzia e di mancata comprensione del problema. Sono lontani i tempi in cui un giudice istruttore francese poteva dichiarare che le leggi svizzere “sono fatte per i contadini che suonano il corno delle Alpi il sabato sera”.

Però. La pena massima per un mafioso, aumentata da cinque a dieci anni di reclusione con la revisione dell’articolo 260 ter del Codice penale svizzero nel luglio 2021, è ancora bassa rispetto alle pene dell’ergastolo e dell’isolamento previste dalla legge italiana. Di fronte alla difficoltà, se non all’impossibilità, di raccogliere prove per perseguire determinate persone, la Fedpol ricorre più massicciamente a due misure amministrative preventive: il divieto di ingresso in Svizzera e l’espulsione, che si scontra ancora con una serie di insidie legali (vedi articolo principale).

La Fedpol, che si basa “sulle informazioni fornite dalle autorità di sicurezza e giudiziarie svizzere ed estere” per emettere tali decisioni, afferma che “questo strumento di polizia preventiva si basa su una valutazione globale del pericolo” e precisa che “sono possibili anche divieti a vita”.

Dal 2016 sono stati emessi 45 divieti di ingresso nei confronti di persone legate alla criminalità organizzata, la maggior parte delle quali è stata condannata in Italia per appartenenza alla mafia. Si dice che il sistema dei divieti d’ingresso funzioni abbastanza bene, e che non sia quasi più necessario dimostrare la pericolosità della mafia, a riprova del fatto che la mentalità giuridica sta iniziando a cambiare. “Quasi”, perché è ancora imperativo capire che non esistono “vecchi affari” e che certamente non si estingue l’azione mafiosa, che si trasmette di generazione in generazione e di propaggine in propaggine. MR


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