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Svizzeritudini 5/15 – Zoccolette e boccalini (e perché no Sonnenstube)

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La Svizzera condensata in 15 parole

Zoccolette e boccalini, insieme alla Sonnestube, sono stati nei decenni scorsi l’emblema caricaturale e folcloristico del Ticino agli occhi dei turisti confederati che nel dopoguerra hanno eletto il cantone italofono a meta privilegiata delle loro vacanze. Ora, in epoca di globalizzazione rampante e voli low cost su internet la favoletta di un Ticino arcaico e agreste, che per certi versi non è mai esistito in questi termini, si è un po’ offuscata anche se la raffigurazione mitologica fatica a scomparire. Di pari passo con la fine del turismo di massa che, insieme al boom nell’edilizia e all’espansione della piazza finanziaria (grazie all’apporto dei capitali italiani), ha contribuito allo sviluppo di un cantone in cui ancora a inizio Novecento povertà e emigrazione imperavano incontrastate.

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E in quel Ticino “le scarpe si usano nei giorni di festa e per l’inverno. Negli altri giorni si indossano le zoccole o si va scalzi”, scriveva il padre della scuola ticinese Stefano Franscini nel 1835, riferendosi alle calzature comuni dei contadini locali. Calzature rigide ricavate dai tronchi di albero che venivano prodotte, in condizioni tutt’altro che agevoli, soprattutto sul Piano di Magadino e che opportunamente chiodate consentivano l’aderenza anche nei pendii dove si trovavano solitamente a svolgevano la loro attività i contadini.

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E che dire del boccalino, che nelle sue ridotte dimensioni “moderne” non è verosimilmente mai esistito. Nei grotti, così amati dai turisti nordici in cerca di refrigerio nelle afose estati sudalpine, una volta si mesceva il vino nostrano di uva americana in ciotole o tazze senza manico di legno o terracotta. Del resto chi non ha provato l’imbarazzante e disagevole esperienza di bere da un qualsiasi boccalino multicolore venduto oggi nei negozi acchiappaturisti? In passato boccali da un litro potevano essere tutt’al più usati per conservare il vino, senza per questo servire da surrogati dei bicchieri.

Ma tant’è, nel Ticino del boom il folclore è destinato a prevalere sulla realtà, come scrive Raffaele Scolari nella Filosofia del boccalino. “Soprattutto a partire dagli anni cinquanta, sull’onda del grande afflusso di turisti provenienti dal nord delle Alpi, il boccalino assurse a simbolo dell’allegra rusticalità e dei piaceri conviviali mediterranei tipici degli abitanti di quel lembo di Lombardia che è il Canton Ticino. Gli addetti alla promozione turistica ne fecero, assieme alle zoccolette, un emblema pubblicitario, ed una produzione artigianale quasi industrializzata inondò i negozi di souvenir e di chincaglieria varia con boccalini di ogni sorta per la gioia dei turisti”. Un’operazione che per l’autore sa molto di “falsificazione” nella quale il boccalino “costituì uno di quegli oggetti regressivi con cui la cultura del folklore idealizzò la vita rurale dei bei tempi andati”.

Ma a fine degli anni ‘80 il mondo è cambiato e dopo Berlino molti altri muri sono caduti. Lontane mete più o meno esotiche sono divenute accessibili a tutti e i laghi e le montagne ticinesi si sono trasformate in destinazioni mordi e fuggi, prenotabili all’ultimo minuto, in particolare se la meteorologia oltre Gottardo volge al brutto, come spesso succede nelle regioni a nord della Sonnenstube (il cosiddetto salotto soleggiato). E nella Svizzera italiana si è deciso di puntare su una clientela selezionata sensibile alle offerte di qualità, basate sugli atout culturali, paesaggistici e enogastronomici. Operazione riuscita solo in parte, all’ombra appunto delle zoccolete e i boccalini…

L’arte dello zoccolaio

Alla fine dell’800 gli zoccolai presenti in Ticino lavoravano direttamente sul campo, ossia nei boschi. Si trattava di un duro lavoro, faticoso e talvolta pericoloso. Gli alberi venivano abbattuti con la scure o con la sega dal manico ad arco. Si lavorava sempre, con il freddo e con il caldo. Eloquente la testimonianza di alcuni operai stabilitisi nei boschi tra Gudo e la foce del fiume Ticino alla fine dell’800: «lavoravamo a cottimo. Dormivamo nel capanno con il fuoco acceso e alimentato a turno. Per lavarsi si prendeva l’acqua alle Bolle o direttamente dal fiume Ticino.» Il lavoro consisteva principalmente nel tagliare gli alberi, sezionare i tronchi a misura del piede, preparando dei parallelepipedi e «squadrare» lo zoccolo con la falce. La squadratura era semplicemente l’eliminazione, a occhio, delle parti inutili, dando così forma allo zoccolo vero e proprio. In seguito, terminato questo lavoro, gli zoccoli venivano legati a gruppi di 20 paia con due rami di nocciolo ed esposti al sole. Dopo l’essicazione si trasportavano al magazzino per la pulitura: anch’essa svolta a mano, serviva pure a dare la curvatura del sinistro e del destro. Finito questo procedimento mancava soltanto l’inchiodatura delle tomaie in cuoio: ora gli zoccoli erano pronti a partire verso i mercati del Ticino.


Il classico zoccolo ticinese aveva due tacchi, uno a metà della parte anteriore con forma triangolare e uno più quadrato nella parte posteriore. Questi tacchi permettevano alle persone, in prevalenza contadini di montagna, di percorrere i vari sentieri e pendii avendo una buona aderenza sia nelle salite che nelle discese. Non rari erano i casi in cui i proprietari infilavano dei chiodi per avere ancor più presa sul terreno scosceso. Fare l’artigiano, in questo caso produrre zoccoli, non era semplicemente prendere un tronco e trasformarlo nel prodotto desiderato. Comportava tutta una serie di conoscenze oltre alla semplice maestria manuale. Significava conoscere le piante, la loro crescita, le malattie, i terreni in cui crescevano e quant’altro. Per portare un esempio di questo sapere, si diceva che i terreni argillosi favorissero il prosperare di bruchi nelle piante, mentre il terreno sabbioso portasse, di norma, a una crescita sana.


Spesso queste conoscenze venivano trasmesse di padre in figlio: dal riconoscere la foglia malata alla corteccia, il colore del legno una volta tagliato, la direzione in cui tagliarlo, le screpolature e via dicendo. Tutti elementi fondamentali per riuscire ad avere un prodotto finale eccelso.
I principali tipi di legno usati erano pioppo, salice, ontano e tiglio. Il salice lo si preferiva per il suo peso specifico che permetteva di aumentare il volume di carico sui camion. I motivi dell’utilizzo di questi tipi di piante erano semplici: abbondavano in Ticino, in particolar modo sul Piano di Magadino. Inoltre, soprattutto ontano e tiglio, erano dei legni «dolci» da lavorare quando ancora verdi, ma parecchio consistenti una volta stagionati. (Giorgio Donini)

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