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Alle radici della spaccatura anglo-americana

Carta di Laura Canali tvsvizzera

di Dario Fabbri

La special relationship tra Stati Uniti e Gran Bretagna pare oggi attraversare uno stato di crisi. Costretti da esigenze e imperativi geopolitici confliggenti, per la prima volta dal 1956 i due partner anglofoni si mostrano relativamente distanti. L’informale patto “sicurezza in cambio di legittimazione internazionale”, su cui si è basto fin qui il fortunato binomio, ormai non funziona come un tempo. Washington, che in questa fase rifugge iniziative militari su larga scala, necessita meno dell’appoggio operativo e politico dei britannici, mentre pretende che questi contribuiscano a puntellare l’architettura europea. Di converso Londra che, mira soprattutto ad attrarre capitali stranieri per alimentare la sua economia, si è aperta all’Asia (leggi Cina) più di quanto vorrebbero gli americani e pare convinta di poter sopravvivere anche fuori dall’Unione Europea. Ne risulta uno scontro dialettico tra alleati di portata quasi inedita.

Lo scorso 22 aprile il sindaco di Londra, Boris Johnson, ha definito pregiudiziale e doloso l’invito avanzato da Obama alla Gran Bretagna di rimanere nell’Unione Europea. Di più: le parole del presidente sarebbero frutto di un retaggio anti-coloniale, «tipico di chi è parzialmente keniano». Solo qualche mese fa sarebbe stato impensabile un attacco così diretto – e vagamente razzista – al leader americano da parte di un politico britannico, peraltro nel suo ruolo istituzionale probabilmente più influente dello stesso primo ministro Cameron. Né basta il sentimento euroscettico di Johnson a giustificarne il tenore. In questa fase Stati Uniti e Gran Bretagna si attestano su posizioni diverse.

Dai tempi della crisi del canale di Suez, che pose fine a qualsiasi competizione tra i due paesi, gli americani considerano Londra il principale interlocutore in ambito Nato, nonché la loro testa di ponte all’interno dell’Unione Europea, in grado di bilanciare le macchinazioni francesi e la potenza economica tedesca. Inoltre l’incondizionato apporto militare britannico alle imprese statunitensi è spesso servito per blandire le critiche di unilateralismo mosse contro Washington. Dal canto loro i britannici hanno storicamente utilizzato la superpotenza quale cruciale appiglio per non essere risucchiati nelle beghe continentali, perenne proposito degli isolani, e per mantenere (almeno formalmente) un’azione geopolitica di respiro globale.

Le guerre americane del primo decennio di questo millennio e la crisi finanziario-economica esplosa nel 2008 hanno inciso negativamente sulla relazione bilaterale. Intenzionati a concentrarsi sulla crescita della Cina senza tuttavia abbandonare il Vecchio Continente, dove un possibile connubio russo-tedesco potrebbe insidiarne l’egemonia globale, gli Stati Uniti pretendono la conservazione di un’Unione Europea posta sotto la loro influenza, cui deve corrispondere un parziale rilancio della Nato. Vista da Washington, la possibile secessione di Londra dalle istituzioni comunitarie potrebbe invece accelerare la disintegrazione continentale e favorire proprio un fisiologico rapprochement tra Berlino e Mosca.

Viceversa la Gran Bretagna ha già puntato sul relativo declino economico degli Stati Uniti e, ormai dipendente quasi totalmente dalla city di Londra, guarda con straordinario interesse verso Oriente. Come dimostrato dalla decisione lo scorso anno di aderire alla cinese Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB), nonostante le contrarie pressioni americane. Per di più, a differenza della superpotenza, parte della classe politica britannica ritiene distinti i dossier Nato ed Unione Europea ed è sicura che l’alleanza atlantica possa resistere alla fine del progetto comunitario.

Coordinate geopolitiche di uno scollamento tra alleati storici – comunque tuttora perfettamente cooperanti in materia di intelligence – che, specie in caso di Brexit, potrebbe ampliarsi ulteriormente.

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