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Per la Spagna si apre la fase più delicata dalla fine del franchismo

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di Dario Fabbri (Limes)

In seguito alle elezioni di domenica scorsa, con nessuno dei partiti nazionali in grado di governare da solo, la Spagna è entrata nella fase di maggiore instabilità dalla fine del franchismo. Con conseguenze potenzialmente molto rilevanti per la ripresa economica, l’unità del paese e il futuro della monarchia.

Per la prima volta dal 1978, anno della promulgazione dell’attuale costituzione democratica, il sistema politico spagnolo ha abbandonato il bipartitismo, segnato dalla ciclica alternanza tra popolari e socialisti, per scivolare in una precarietà che potrebbe divenire endemica. A contendersi il primato elettorale sono adesso il partito popolare guidato dal premier uscente Mariano Rajoy, che il 20 dicembre ha ottenuto il 28,7% dei voti per un totale di 123 seggi nella Camera bassa del parlamento; i socialisti di Pedro Sanchez (22% delle preferenze e 90 seggi); i populisti di sinistra di Podemos (20,7% e 69 seggi); e i centristi-liberali di Ciudadanos (13,9% e 40 seggi). Tutti soggetti ben lontani dai 176 seggi necessari a controllare la Camera dei deputati che ha il potere di confermare e sfiduciare il capo dell’esecutivo. La durissima crisi economica e politica esplosa nel 2008 ha notevolmente eroso il potere dei partiti tradizionali e causato l’emergere di nuovi movimenti che, come dimostrato da quest’ultime elezioni, non hanno ancora abbastanza consenso per rovesciare l’ancien régime. Ne deriva un periodo di assoluta incertezza politica ed istituzionale.

Sul fronte governativo le opzioni sul tavolo sono almeno tre. La nascita di un esecutivo di coalizione guidato dai popolari e sostenuto, almeno passivamente, da socialisti e centristi; un governo di minoranza disponibile a negoziare sui singoli temi con ciascun partito; oppure il ritorno alle urne entro la prossima primavera.

Ad ogni modo un soggetto debole o pro tempore. Proprio ora che la Spagna, per sostenere la timida ripresa economica e sopravvivere nella sua forma attuale, necessiterebbe di un potere centrale legittimato dagli elettori. L’imperativo di Madrid è da sempre mantenere unito il paese, minato dalle differenze linguistiche ed economiche delle singole regioni, ed un vuoto istituzionale potrebbe favorire le forze centrifughe. Non a caso a Barcellona, prima di formare l’esecutivo locale, gli indipendentisti attendono di conoscere quale colore e quale forza avrà il loro interlocutore madrileno. Con Podemos, potenziale ago della bilancia in un governo di minoranza, che è favorevole ad un referendum sul futuro della Catalogna. Mentre gli unionisti di Ciudadanos non sembrano capaci di fungere da reale contrappeso.

In un tale contesto, come previsto dalla costituzione e della grammatica istituzionale, il giovane re Filippo VI è chiamato ad incarnare il duplice ruolo di negoziatore informale e difensore del sistema democratico. Compito particolarmente complesso, giacché Filippo non ha alcuna esperienza in materia e, in caso di prolungata crisi di governo o di secessione catalana, la tenuta stessa della monarchia apparirebbe in serio pericolo. Peraltro, più che la casa reale, gli spagnoli amano il defunto re Juan Carlos e gli esponenti di Podemos, terza forza politica di Spagna, sono dichiaratamente repubblicani.

Fotografia di una congiuntura zeppa di incognite, che potrebbe consegnare alla storia una Spagna profondamente diversa da quella post-franchista.

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