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Una crisi di liquidità trasformata in Grexit

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di Fabrizio Onida (LaVoce.info)

Governi europei miopi e una Bce che abdica alla sua funzione di banca centrale come prestatore di ultima istanza cooperano per trasformare una crisi di liquidità in crisi di insolvenza, con conseguenze autolesionistiche. Scenari difficili qualsiasi sia il risultato del referendum in Grecia

Come suggeriva Paul De Grauwe in un Ceps Commentary del 18 giugno, la vera domanda a cui i governi dovrebbero rispondere è: vogliamo che la Grecia da illiquida (come oggi è) diventi insolvente? Dopo i due bailout del 2010 e del febbraio 2012 – i creditori privati hanno già forzosamente accettato un haircut di più del 50 per cento sul proprio portafoglio titoli e nuove scadenze concordate sul debito complessivo – il rapporto tra valore attuale netto del debito e Pil può essere calcolato in meno della metà del nominale 175 per cento, tenuto conto dei tassi a lungo termine attualmente bassi, con una durata media del debito allungata a 16 anni, e interessi passivi che pesano poco più del 2,5 per cento del Pil fino al 2020 (meno di quanto oggi sopportano paesi come Italia, Spagna, Portogallo, Belgio, Irlanda). Quindi la Grecia non è in partenza insolvente.

Alexis Tsipras non è venuto al tavolo negoziale del tutto a mani vuote: come già ricordava Andrea Boitani (LINKLavoce del 26 giugno), prima della clamorosa rottura con annuncio del referendum di domenica prossima, l’offerta di riforme da parte del governo greco contemplava “una forte dose di medicina amara” comprensiva di un surplus primario dell’1,5 per cento nel 2015 poi in salita dal 2016, tre aliquote Iva con sensibile aumento medio del gettito, innalzamento dell’età pensionistica a 67 anni entro il 2025, ulteriori tagli al pubblico impiego e altro ancora. Permane la massima incertezza sulla lotta alla cronica e diffusa evasione fiscale, uno dei cancri più temibili del paese.

La crisi attuale è essenzialmente una crisi di liquidità delle banche e del sistema dei pagamenti, oggi semi-paralizzato dalla fuga dei depositanti, dai mancati pagamenti ai fornitori lungo tutta la catena produttiva e dalla fuga dei capitali verso l’estero. Una crisi dominata dalla totale sfiducia sulla tenuta del cambio, di fatto è la paura della Grexit e delle sue conseguenze. Una crisi dunque gestibile, se la Bce riammettesse la Grecia fra i 28 paesi beneficiari del Quantitative easing di 60 miliardi al mese fino al settembre 2016 e scongelasse l’attuale soglia di 89 miliardi di liquidità di emergenza (Ela – Emergency Liquidity Assistance), magari memore del famoso “whatever it takes”. Invece, nonostante la sbandierata “banking union”, la Bce continua a essere prigioniera della regola che impedisce di finanziare “banche insolventi” e dell’ossessione del “moral hazard” dei governanti spensierati. Così facendo, la Banca centrale europea abdica alla sua funzione di prestatore d’ultima istanza che deve tenere a galla le proprie banche, anche se ciò comporta perdite (http://www.voxeu.org/article/grexit-staggering-cost-central-bank-dependenceCollegamento esterno).

Se, per apparire “solvente” agli occhi della Bce, la Grecia si rivolgesse oggi ai mercati internazionali, dovrebbe accettare di emettere titoli con premio al rischio ben più alti dei nostri passati spread da 500-600 punti base. Ma così una (sia pur drammatica) crisi di liquidità si trasformerebbe di fatto in una (ben peggiore) crisi di insolvenza. Un bel circolo vizioso. Su questo dovrebbero onestamente riflettere i grandi sacerdoti della finanza europea e internazionale (Christine Lagarde inclusa).

I risultati del referendum

Ora la mossa assai azzardata (politicamente scorretta o astuta?) di Tsipras sul referendum del 5 luglio rompe le righe e rischia molto di diventare un gioco a somma negativa (che ne pensa l’economista-giochista Varoufakis?). Infatti, se alla domanda secca posta dal referendum al popolo (che difficilmente potrà capire le “azioni prioritarie” contenute nelle dieci pagine diffuse da Jean-Claude Juncker a nome dei creditori ufficiali) la risposta sarà “no”, dovremmo tutti prepararci alla Grexit. Angela Merkel non la vuole, Mario Draghi tanto meno, perfino gli hedge fund la esorcizzano, ma la Bce sembra non voler avvalersi fino in fondo della propria indipendenza dalle decisioni politiche. Forse qualche governo di “paesi del Nord” vedrebbe di buon occhio questo esito, quasi un disvelarsi del “re nudo” quale è un euro senza unione politica. E paradossalmente la Grexit sarebbe l’opzione preferita da larga parte dei partiti e movimenti della destra anti-europeista (da Marine LePen in Francia ad Alba Dorata in Grecia, più ambigui la Lega in Italia e Podemos in Spagna). Purtroppo o per fortuna, la democrazia europea non conosce scorciatoie.

Se invece la risposta sarà “sì”, non saremo al sicuro lo stesso. Il governo Tsipras si dichiarerà disposto a continuare il negoziato in posizione di maggiore debolezza, accettando di realizzare riforme politicamente ed economicamente ancora più costose. Tuttavia, Tsipras uscirebbe perdente agli occhi dell’elettorato di destra, di centro e di sinistra e i mercati fibrillerebbero per l’incertezza circa gli esiti del probabile ritorno alle urne. Nel frattempo, probabilmente, la Bce allenterebbe i cordoni della liquidità, ma l’uscita dal caos non sarebbe vicina.

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