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Per combattere il “fast fashion” ci vuole consapevolezza

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© Keystone / Christian Beutler

Le compratrici e i compratori svizzeri scartano ogni anno più di 100’000 tonnellate di vestiti, di cui solo la metà viene donata, rivenduta o riciclata. Il resto viene incenerito. 

In un momento in cui l’Europa genera da sola milioni di tonnellate di rifiuti tessili, la necessità di porre un freno alla moda di breve durata (chiamata anche fast fashion) sta diventando sempre più pressante.

Un po’ dappertutto stanno emergendo nuove normative per rendere i produttori più responsabili, lungo l’intera catena del valore, fin dalla progettazione degli abiti. Anche in Svizzera si riflette sul tema.

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“Malgrado l’aumento generale della consapevolezza dei problemi ambientali, in materia di abbigliamento il prezzo e i canali di marketing – in particolare i social rivolti ai giovani – sembrano troppo attraenti per molte persone”, afferma Mireille Faist, specialista della società di consulenza sulla sostenibilità Quantis, in dichiarazioni all’agenzia Awp.

L’etichetta “ecoscore”

La Francia introdurrà un cosiddetto ecoscore – un’etichetta per l’abbigliamento – il prossimo autunno, assumendo la guida di un progetto simile a livello di Unione Europea. “L’ecoscore è un’informazione importante per i consumatori, che può orientare le loro scelte d’acquisto, ma un’etichetta sul prodotto non impedisce alle persone di comprare grandi quantità di indumenti o di sbarazzarsene prematuramente”, avverte Faist.

Nicolas Inglard, responsabile per la Svizzera romanda di Swiss Retail Federation, l’associazione del commercio al dettaglio, ritiene che le norme serviranno più che altro a far conoscere i tanto criticati operatori del fast fashion, perché sono proprio loro a eluderle. In un mercato “che per l’80% opera su un modello di subfornitura, bisogna mettere in prospettiva ciò che si può ottenere attraverso la legislazione”.

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“Non è con i dazi doganali che regoleremo i consumi, ma sensibilizzando i consumatori: se sono meglio informati, prenderanno anche decisioni migliori a lungo termine”, argomenta Inglard. Da parte sua Faist non è però dello stesso parere: “Sono necessari quadri legislativi per non far ricadere l’intero onere sulle spalle dei consumatori”.

Sebbene vi siano lacune da colmare in termini di trasparenza e tracciabilità, i principali marchi della moda “si sono posti obiettivi molto ambiziosi in termini di emissioni di CO2 e di riciclaggio”, afferma Alexander Thiel, esperto presso McKinsey. Questi obiettivi comportano la decarbonizzazione della catena del valore e richiederanno grandi investimenti, anche da parte dei fornitori.

Si parte dalla progettazione degli indumenti e dalla scelta dei materiali. È però necessario che l’offerta sia sufficiente: “Per le fibre riciclate, la domanda è enorme, quindi alcune aziende stanno creando i propri punti di raccolta per garantire una fornitura sufficiente”, spiega Thiel.

L’attenzione agli obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio non è peraltro priva di rischi, in quanto le aziende europee potrebbero mettere da parte “altre questioni altrettanto importanti, come ulteriori impatti sulla natura, la biodiversità e la scarsità d’acqua”, mette in guardia Faist.

La Svizzera ricicla la metà

“In Svizzera circa la metà dei rifiuti tessili viene riciclata; il resto viene inviato all’estero o incenerito”, spiega Boris Héritier, cofondatore di Texup. La start-up produce pannelli anti-rumore a partire da fibre tessili riciclate. I tessuti, provenienti da contenitori di abiti usati, vengono lavati e selezionati dalla cooperativa Démarche. Tutto ciò che non può essere riutilizzato viene sminuzzato e poi agglomerato e compattato per formare una parete divisoria che può essere utilizzata per arredare gli uffici.

Texup opera in un mercato vivace, in un momento in cui uno dei principali sbocchi per gli abiti usati – l’esportazione – è sempre più esposto a critiche. Alcuni paesi, come il Ruanda, hanno addirittura vietato l’importazione di vestiti di seconda mano, per evitare che finiscano in discariche a cielo aperto. Il riciclaggio potrebbe rappresentare una soluzione, ma l’imprenditore sottolinea: “La radice del problema è il consumo, non lo spreco: ci si trova in un mercato in cui nessuno vuole vedere che stiamo consumando troppo”.

Il “greenwashing” delle grandi aziende

Alcuni grandi nomi del fast fashion, come Zara, Shein e H&M, sono entrati nel mercato dell’usato con ampie campagne pubblicitarie. “È solo greenwashing, ecologismo di facciata, perché i volumi sono minimi e rimarranno tali finché l’attività sarà trattata come secondaria”, sostiene Inglard. Inoltre, la scarsa qualità dei prodotti ne limita in ogni caso la durata.

“La sostenibilità di un articolo è linearmente legata alla sua durata, soprattutto per i prodotti che non richiedono energia per essere utilizzati”, gli fa eco Faist. “Più un indumento viene indossato, minore è l’impatto ambientale ogni volta che viene utilizzato”, conclude l’esperta.

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