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La “fast fashion”, una piaga di cui la Svizzera fatica a liberarsi

Vetrina negozio manichini rifiuti
Le consumatrici e i consumatori svizzeri scartano ogni anno più di 100’000 tonnellate di vestiti, di cui solo la metà viene donata, rivenduta o riciclata. L'altra metà viene incenerita. Keystone / Laurent Cipriani

La popolazione svizzera è la seconda al mondo per consumo di "fast fashion", ovvero di capi che vengono usati e gettati velocemente, contribuendo alla crisi climatica. Ma le poche ricercatrici e ricercatori che provano a trovare soluzioni più sostenibili devono lottare per trovare fondi e portare avanti il loro lavoro.

“Siamo pessime, siamo davvero pessime”, ripete Katia Vladimirova davanti a una tazza di caffè, ormai freddo. È da ore che la ricercatrice parla di sé e delle cattive abitudini di tante altre donne che possono permettersi di fare shoppingCollegamento esterno, ma che acquistano una quantità eccessiva di capi di abbigliamento economici e di breve durata.

L’industria della moda genera fino all’8% delle emissioni globali di anidride carbonica, più o meno quanto i trasporti marittimi e i voli internazionali messi insieme. Prima di scoprire l’impatto disastroso di ciò che indossa sull’ambiente e sulle persone, Vladimirova era solita fare shopping sfrenato e spesso era la prima a presentarsi davanti ai negozi per i saldi. Oggi, la trentaseienne acquista soprattutto vestiti di seconda mano e fa ricerca sui temi legati alla sostenibilità, al consumo e alla moda presso l’Università di Ginevra.

Katia Vladimirova davanti all Upcyclerie di Ginevra
Katia Vladimirova davanti all’Upcyclerie di Ginevra, che dà una seconda vita ai vestiti usati. La ricercatrice ha mappato i negozi ginevrini che puntano al riutilizzo dei materiali e alla riduzione dei rifiuti. swissinfo.ch

Originaria della Russia, ha studiato e lavorato nelle principali capitali della moda: Londra, New York e Milano. Quando si è trasferita a Ginevra nel 2018, ha scoperto con disappunto che una delle città più ricche del mondo non offriva molto oltre ai negozi di lusso e alle catene di fast-fashion. Come parte della sua ricerca, ha iniziato a mappare le tendenze di consumo a Ginevra. In particolare, ha cercato di individuare i negozi che puntano al riutilizzo dei materiali e alla riduzione dei rifiuti. “Pensavo di trovare una maggiore diversità, ma c’è ancora una forte presenza di moda usa e getta”, dice Vladimirova. Il suo rapporto, finanziato dalla città di Ginevra, è stato pubblicato alla fine di aprile.

I dati indicano che ciò non vale solo a Ginevra: la Svizzera è seconda solo al Lussemburgo per quanto riguarda la spesa pro capite in abbigliamento e scarpe, di cui appena il 6% circa è prodotto in modo sostenibile. Le consumatrici e i consumatori svizzeri scartano ogni anno più di 100’000 tonnellate di vestiti, di cui solo la metàCollegamento esterno viene donata, rivenduta o riciclata. L’altra metà viene incenerita per ridurre la quantità di rifiuti tessili che si accumulano nelle discariche (vedi grafico sotto).

Nella maggior parte dei casi, si tratta di abiti praticamente nuovi, a volte persino con l’etichetta ancora attaccata. Questa pratica alimenta i profitti delle aziende che producono vestiti e scarpe in serie.

Grafico sui rifiuti tessili riciclaggio
Kai Reusser / swissinfo.ch

Progressi lenti in Svizzera

Sebbene negli ultimi anni siano nate in tutto il mondo numerose iniziative per sensibilizzare al consumo sostenibile e responsabile di moda, la Svizzera è ancora indietro rispetto ad altri Paesi europei. Nella Confederazione non c’è quasi nessuna ricerca in questo campo e i pochi ricercatori e ricercatrici locali hanno difficoltà a far progredire i loro studi.     

Katia Vladimirova è una di loro. “Lavorare sui vestiti non è molto popolare nell’ambiente della ricerca”, dice. Nel corso della sua carriera, si è costantemente confrontata con un certo disinteresse per gli studi sulla moda. In Svizzera, ricevere fondi pubblici si è rivelato particolarmente difficile. Per ottenere le sovvenzioni, chi fa ricerca deve spendere molto tempo ed energie per promuovere attivamente i propri progetti. L’iniziativa di produrre un rapporto sull’ecosistema tessile ginevrino non è venuta dal comune ma da Vladimirova, che è riuscita a convincere la città che valeva la pena di portare avanti la sua idea. Alla fine, nel 2020, la municipalità ha deciso di sostenere il progetto con 50’000 franchi svizzeri nell’arco di due anni.    

>> La scena della moda sostenibile di Ginevra: 

Costi umani e ambientali

Vladimirova ha vissuto in prima persona i meccanismi psicologici e commerciali che guidano l’industria globale della moda usa e getta. Specialmente le donne della classe media tendono ad accumulare capi di abbigliamento a basso costo e di bassa qualità, la maggior parte dei quali è prodotta all’estero in condizioni di lavoro precarie. Il 24 aprile ha segnato il decimo anniversario della tragedia del Rana Plaza, un edificio alla periferia di Dhaka, in Bangladesh, il cui crollo nel 2013 ha provocato la morte di 1’134 lavoratori del settore tessile. L’evento ha puntato i riflettori sullo sfruttamento umano che si cela dietro all’industria della fast fashion.

Anche i danni ambientali sono importanti. Le cifre globali sono sbalorditive: l’industria della moda è il secondo consumatore di risorse idriche al mondo ed è responsabile del 20% delle acque di scarico industrialiCollegamento esterno provenienti dal trattamento e dalla tintura dei tessuti. Dopo la vendita, gli indumenti continuano a inquinare: durante il lavaggio, le microfibre di materiali sintetici come il poliestere, insieme a sostanze chimiche tossiche, finiscono nei corsi d’acqua dove possono essere ingerite dagli esseri viventi.

Impatto dell industria della moda sull ambiente
Kai Reusser / swissinfo.ch

Comprare, indossare, buttare, ripetere

La ricerca di Vladimirova mostra che città come Ginevra funzionano fondamentalmente come delle “pompe” che alimentano il mercato dell’usato. Gli abiti e le scarpe indesiderati finiscono nei sacchi delle donazioni o vengono raccolti da aziende che li esportano per riciclarli. Le consumatrici e i consumatori svizzeri, i secondi più ricchi al mondo per PIL pro-capite, sono ben inseriti in questo circuito: nel 2022, la Svizzera ha importato circa 22 chilogrammi di prodotti tessili a persona, più del 95% di tutti i vestiti acquistati nel Paese, e ne ha esportati circa 14 chilogrammi (usati e nuovi), secondo l’Ufficio federale della dogana (UDSC).

A Ginevra, un centro gestito congiuntamente dalle organizzazioni caritatevoli Caritas e Centre Social Protestant invia il 35% degli abiti e delle scarpe donati, che sono in cattive condizioni, alla società di riciclaggio Texaid, la quale li esporta principalmente verso i Paesi africani e asiaticiCollegamento esterno. Lì, secondo Vladimirova, i tessuti usati provenienti dall’Europa finiscono spesso nelle discariche perché la quantità è eccessiva e la qualità troppo scadente. Texaid, da parte sua, ha scritto a SWI swissinfo.ch in un’e-mail che, sebbene l’abbigliamento venga esportato solo a rivenditori autorizzati, l’azienda non ha alcuna influenza sulle modalità di smaltimento nel Paese di destinazione.

Vestiti frutto dell economia circolare a Ginevra
Capi di design ottenuti dal riciclo e dalla trasformazione di tessuti di scarto, in vendita nell’Upcyclerie di Ginevra. Alcuni capi possono costare anche 500 franchi. swissinfo.ch

Riciclare e ripensare la moda

La realtà è che oggi meno dello 0,5% dei tessuti scartati viene riciclatoCollegamento esterno. Questo perché la maggior parte degli indumenti è composta da mix tessili per abbassare i costi, e ciò rende la separazione e il riutilizzo molto complessi e laboriosi.

Françoise Adler
Françoise Adler, ricercatrice in design tessile e sostenibilità presso l’Università di Scienze Applicate e Arti di Lucerna. HSLU

L’Europa è sottoposta a una crescente pressione politica per risolvere questo problema: nel marzo 2022, la Commissione europea ha proposto una legislazioneCollegamento esterno che renderebbe i prodotti sostenibili la norma nell’Unione Europea. Ma a tal fine è fondamentale finanziare la ricerca sulla produzione di capi a partire da materiali secondari e sulla riduzione delle materie prime a base di petrolio e non riciclabili, come il poliestere. “Dobbiamo capire come utilizzare le fibre in modo da poterle riciclare e farle durare più a lungo”, afferma Françoise Adler dell’Università di Scienze Applicate e Arti di Lucerna. “E non possiamo farlo utilizzando le tecnologie e le catene di approvvigionamento odierne.”

Adler è un’altra ricercatrice che pensa che gli studi sulla sostenibilità dei tessuti siano trascurati in Svizzera. “È frustrante vedere come i finanziamenti siano facilmente disponibili per la ricerca in campi come la robotica e l’intelligenza artificiale, mentre noi fatichiamo a ottenere fondi nazionali”, afferma.

La Segreteria di Stato per l’economia (SECO) e l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM) sostengono dal 2020 un programmaCollegamento esterno per promuovere catene di approvvigionamento più sostenibili e trasparenti nel settore tessile, con un finanziamento di 325’000 franchi fino al 2024. Tuttavia, il programma si rivolge principalmente all’industria e non promuove la ricerca.

Kate Fletcher foto
Kate Fletcher è la studiosa britannica di moda sostenibile più citata del settore. Insegna sostenibilità e design presso l’Accademia reale danese di Copenaghen. Per Herriksen

Altri Stati come il Regno Unito e i Paesi scandinavi sono un passo avanti rispetto alla Svizzera per quanto riguarda la ricerca sulla moda sostenibile. Kate Fletcher, la studiosa britannica più citata del settore, afferma che ciò è dovuto allo stretto legame tra industria e università. Secondo la ricercatrice, però, l’altro lato della medaglia è che questa stretta collaborazione ostacola le ricerche troppo critiche nei confronti delle logiche di crescita economica che dominano e guidano l’industria.

“Non abbiamo bisogno di nuove tecnologie o di nuove fibre perché nessuna soluzione sostenibile si trova nei centri commerciali”, afferma Fletcher. Sarebbe molto più sostenibile, dice, semplicemente produrre e comprare meno vestiti. “Ma questo è un messaggio che nessuno vuole sentire.”

A cura di Sabrina Weiss e Veronica De Vore

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