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Barack Obama 44esimo presidente degli USA

Giovane, meticcio, democratico: l'uomo nuovo degli USA, accompagnato dalla famiglia, saluta la folla a Chicago dopo l'annuncio della vittoria Keystone

Per la prima volta nella loro storia, gli Stati uniti hanno eletto un presidente di colore. La vittoria di Obama è chiara e netta. McCain ha ammesso la sconfitta e George Bush ha chiamato il suo successore per congratularsi.

«Questa notte è la risposta a chi pensa che in America ci sia qualcosa d’impossibile». È con queste parole che Barack Obama – accompagnato dalla moglie e dalle figlie – si è presentato sul palco del Grant Park di Chicago dove una folla in delirio ha accolto lui e il suo vice Joe Biden con una pioggia di applausi.

La vittoria di Obama era diventata certezza poco più di un’ora prima – le 23 sulla costa orientale degli USA, le 5 in Svizzera – quando le televisioni del paese avevano annunciato che il senatore democratico aveva conquistato la California.

A Chicago, però, la festa era già partita: poco dopo la chiusura dei seggi, le proiezioni, che indicavano la vittoria in stati chiave come la Pennsylvania, l’Ohio e l’Iowa, hanno fatto capire nel giro di poche ore quale sarebbe stato l’andamento della corsa.

«Con questa elezione il cambiamento è arrivato in America», ha detto Obama. «Siamo e saremo gli Stati Uniti d’America, e abbiamo dimostrato al mondo intero che non siamo semplicemente una collezione d’individui di tutti i tipi».

Nel suo discorso Obama ha reso omaggio al suo avversario repubblicano John McCain, che poco prima lo aveva chiamato per telefono. Obama ha riconosciuto che McCain ha combattuto duramente e con lealtà durante la campagna elettorale e si è detto pronto a lavorare con lui.

Una campagna quasi perfetta

Gli Stati Uniti hanno scelto: il senatore nero Barack Obama ha vinto la presidenza al termine di una campagna quasi perfetta. Dopo avere battuto nelle primarie democratiche un’avversaria come Hillary Clinton, che sembrava una vincitrice annunciata, ha sconfitto il rivale repubblicano John McCain.

Nella notte elettorale Obama è riuscito a sventare l’attacco disperato di McCain alla Pennsylvania, l’unico importante stato democratico che il repubblicano pensava di poter vincere, imponendosi poi negli stati che sono tradizionalmente incerti, diventati una macchia blu, il colore del partito democratico.

Ma Obama ha vinto la presidenza soprattutto con una campagna impeccabile dove è riuscito a raccogliere più soldi del rivale, a presentare un messaggio più appetibile agli elettori, a creare una macchina elettorale più efficiente, a motivare i suoi sostenitori con entusiasmi maggiore.

A questa abilità bisogna sommare una serie di circostanze sfavorevoli per i repubblicani: l’insoddisfazione degli elettori per gli otto anni di presidenza Bush, la crisi economica che ha colpito gli americani nel portafoglio e la difficoltà di McCain nel presentare un messaggio chiaro.

La battaglia tra i due candidati si è trasformata presto in una gara a rassicurare e a conquistare i favori della classe media.

Un’America divisa in eredità

La scalata alla presidenza di Obama era cominciata, tra lo scetticismo generale, il 10 febbraio 2007 di fronte al Capitol di Springfield. L’edificio dove un secolo e mezzo prima, nel 1858, Lincoln pronunciò il discorso passato alla Storia come «House Divided»: il futuro presidente spiegò perché una casa divisa in due – gli stati del nord contro quelli del sud – non poteva stare in piedi e lanciò con quel discorso l’attacco più potente e razionale contro la schiavitù.

Obama eredita ora un’altra «House Divided»: apparentemente superato il problema razziale, gli Stati uniti restano divisi su una molteplicità di temi. Creare una nuova unità non sarà facile, nemmeno per il primo presidente afroamericano del paese. La sfida, Obama l’ha raccolta già nel 2004, con un celebre discorso alla Convention dei democratici. Ma in pochi pensavano che il senatore dell’Illinois sarebbe arrivato così in alto già quattro anni dopo, nemmeno il diretto interessato, che con i suoi strateghi aveva delineato un piano chiamato «2010-2012-2016».

Nel 2006, però, Obama ha deciso di bruciare le tappe, respirando una voglia di cambiamento che, a suo avviso, non poteva venir soddisfatta da una figura come Hillary Clinton, la candidata che all’epoca pareva la scelta quasi scontata dei democratici per cercare di riprendersi la Casa bianca dopo otto anni di amministrazione Bush.

Dopo aver strappato la candidatura democratica alla Clinton, Obama si è lanciato verso le elezioni generali con il vento in poppa e le casse strapiene di soldi. E l’America lo ha seguito, affascinata dalla figura di un nero capace di incarnare il carisma di Kennedy e Reagan e di proporre un nuovo modo di coinvolgere gli elettori in ogni fase della campagna, facendoli sentire parte di un vero e proprio movimento.

swissinfo e agenzie

Le elezioni presidenziali di martedì sono state le 56esime nella storia degli Stati Uniti e Barack Obama è diventato il 44esimo presidente americano.

Il primo presidente della storia è stato George Washington (1789-1796), del Partito federalista. Dal 1854, quando fu eletto Franklin Pierce, il paesaggio politico statunitense è dominato da due grandi formazioni, il Partito repubblicano e quello democratico.

Barack Obama è il 15esimo rappresentante del Partito democratico eletto alla Casa Bianca. I presidenti repubblicani sono invece stati 19.

Il sistema elettorale statunitense non ha subito sostanziali modifiche dai tempi della Dichiarazione d’indipendenza. L’elezione presidenziale avviene in modo indiretto. I cittadini esprimono la preferenza per un candidato, anche se in realtà eleggono una lista di «grandi elettori» a lui associati.

Ogni stato ha diritto ad almeno due grandi elettori, più un numero uguale a quello dei deputati inviati alla Camera (proporzionale al numero di abitanti). Complessivamente, i grandi elettori sono 538. Per essere eletto un candidato deve riunire almeno 270 grandi elettori. Chi vince in uno stato, anche per un solo voto, si aggiudica tutti i grandi elettori di quello stato.

Con questo sistema può essere eletto alla presidenza anche chi non ha raggiunto la maggioranza assoluta in tutto il paese. Nel 2000, ad esempio, il candidato repubblicano George W. Bush raccolse meno voti del suo rivale democratico Al Gore. Bush riuscì però a conquistare 271 grandi elettori contro i 266 di Gore.

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