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Delle ONG chiedono al Credit Suisse di passare alla cassa

Lo scorso febbraio, militanti ecologisti hanno issato un "albero di protesta" davanti alla sede di Zurigo del Credit Suisse Keystone

La seconda banca svizzera deve pagare 12 milioni di franchi alle popolazioni della foresta tropicale, ossia gli utili generati dall'entrata in Borsa del produttore di legno Samling.

È quanto chiedono il Fondo Bruno Manser e l’Associazione per i popoli minacciati, che criticano le relazioni d’affari del Credit Suisse con il gruppo malese.

Popolazioni indigene della Guyana, della Cambogia, della Malaysia e della Papuasia-Nuova Guinea chiedono 10 milioni di dollari di risarcimenti al Credit Suisse. Rimproverano all’istituto di credito di aver preparato l’entrata in borsa del produttore di legno tropicale malese Samling.

L’azienda distrugge le foreste tropicali nelle quali vivono queste popolazioni, hanno denunciato giovedì davanti alla stampa a Zurigo alcuni rappresentanti degli indigeni e i responsabili del Fondo Bruno Manser (BMF) – un’associazione per la protezione dell’ambiente – e dell’Associazione per i popoli minacciati (APM).

In alcune regioni, la Samling ha inquinato l’acqua potabile e gli indigeni non possono più raccogliere legna nelle foreste in cui vivono da secoli.

Soltano nel Sarawak e nella Guyana, la società sfrutta 3,9 milioni di ettari di foresta, una superficie che corrisponde a più di tre volte quella dei boschi della Svizzera.

Sviluppo sostenibile

Il Fondo Bruno Manser e l’Associazione per i popoli minacciati rimproverano al Credit Suisse di non aver rispettato i principi di sviluppo sostenibile e chiedono al nuovo patron della grande banca, Brady Dougan, di sospendere la collaborazione con il gruppo malese.

“Esigiamo anche che il Credit Suisse restituisca gli utili generati dall’entrata in Borsa del gruppo (avvenuta il 23 febbraio scorso, ndr) ai popoli autoctoni lesi”, ha dichiarato Lukas Straumann, direttore del BMF.

Il BMF e l’APM hanno incontrato rappresentanti del Credit Suisse il 23 febbraio scorso, ma le discussioni si sono rivelate infruttuose, ha precisato Lukas Straumann.

Dal canto suo, il Credit Suisse si è difeso sostenendo che la Samling è stata oggetto di un esame minuzioso da parte della banca. Il rapporto mostra che la società rispetta le leggi in vigore, ha dichiarato Alex Biscaro, portavoce dell’istituto.

Dialogo

La banca ha comunque deciso di impegnarsi in maniera “costruttiva” per risolvere la vertenza ed ha organizzato una riunione già nel pomeriggio di giovedi tra i rappresentanti delle due parti. .

Il colloquio è stato giudicato positivo da Straumann perché ha permesso di avviare il dialogo. Il punto dolente è che il Credit Suisse è fermo sulle sue posizioni, ha aggiunto. Il dialogo quindi proseguirà senza la banca.

La Samling, dal canto suo, ha respinto i rimproveri. “La società fa del suo meglio per aiutare la gente”, ha dichiarato il responsabile delle relazioni con le popolazioni locali Steward Haran. Un aiuto – ha precisato – che va dalla costruzione di case alle strade, passando dall’assistenza medica, alla scolarizzazione dei bambini e ai regali di Natale.

“Stiamo morendo lentamente”

Anche se la Samling agisce in modo legale – hanno in sostanza risposto i rappresentanti dei popoli autoctoni – le conseguenze dello sfruttamento della foresta sono drammatiche.

“Stiamo morendo lentamente”, ha affermato il rappresentante del popolo Penan, che vive in Malaysia.

In Guyana – ha denunciato l’antropologa Janette Bulkan – la filiale della Semling, Barama , sfrutta legalmente il 23% della foresta. In 15 anni di presenza nel paese, questa società non ha però versato un soldo di imposta, impiega solo un centinaio di persone del posto e versa loro un salario di due dollari al giorno.

La Samling e il rappresentante del governo avevano assicurato che si sarebbe trattato di “un buon contratto”, che sarebbe stato nell’interesse anche della popolazione locale. Tutto ciò non si è avverato, ha testimoniato David Wilson, rappresentante di un villaggio della Guyana.

“Gli animali fuggono disturbati dalle grosse macchine, i pesci muoiono a causa dell’inquinamento dell’acqua. Di cosa deve vivere un popolo di cacciatori e pescatori?”, ha esclamato Wilson.

swissinfo e agenzie

Il Fondo Bruno Manser è stato così battezzato in onore dell’ecologista basilese che visse dal 1984 al 1990 assieme al popolo dei Penan, in Sarawak, l’enclave malese nel Borneo.

Manser, che studiò e descrisse la lingua, gli usi e i costumi dei Penan, una volta ritornato in Europa , all’inizio degli anni ’90, tenne molte conferenze su questo popolo e sul Sarawak.

Per protestare contro l’importazione di legno tropicale dal Borneo, nel 1993 fece uno sciopero della fame davanti a Palazzo federale a Berna.

Impegnato a fianco delle popolazioni locali nella battaglia non violenta in difesa delle foreste tropicali, Manser divenne uno scomodo personaggio agli occhi delle autorità malesi e dagli industriali del legno. Il militante ecologista non ha più dato segni di vita dal 2000, dopo essere rientrato clandestinamente in Borneo.

Cinque anni dopo la sua scomparsa, Bruno Manser è stato ufficialmente dichiarato morto da un tribunale di Basilea.

Un film consacrato al militante ecologista – intitolato “Bruno Manser – Laki Penan” – è stato presentato recentemente al Festival Vision du Réel di Nyon.

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