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La forza della marca

Keystone

Mentre l'UBS cade a picco, la Coca Cola e la Microsoft si confermano in testa alla classifica dei 100 marchi a più alto valore economico. Ma fino a che punto il destino di un'azienda dipende da un semplice simbolo e quanto è forte la sua influenza sui consumatori?

Seduti davanti a un Big Mac gigante e a un bicchiere di Coca-cola, in una mano un Nokia e nell’altra un iPhone, cerchiamo disperati su Google le Nike dei nostri sogni… Quello che all’apparenza potrebbe sembrare la situazione di un ragazzo qualunque, in un angolo qualunque del mondo, nasconde invece una realtà ben più complessa.

Il nostro linguaggio, il nostro modo di consumare e di vivere sono spesso influenzati dalla forza delle marche, anche se il più delle volte non ce ne rendiamo conto. E quando il successo di una prodotto è tale da sbaragliare il mercato, il suo nome viene perfino sostituito al termine comune. Così, quando vogliamo la carta da cucina, chiediamo la Scottex, il nastro adesivo lo Scotch, il bianchetto per cancellare la biro, o per meglio dire la penna a sfera, il Tip-ex.

Che il marchio sia da tempo un elemento sempre più importante per le aziende è dimostrato dall’attenzione crescente nei confronti delle classifiche sul valore economico dei primi 100 marchi, stilata ogni anno dalla multinazionale della consulenza Interbrand. Espresso in termini monetari, «questo valore viene calcolato sulla base dei flussi economici che un determinato “brand” sarà in grado di sviluppare in futuro, scontati per un tasso capace di rifletterne il grado di rischio», spiega Manfredi Ricca, business director di Interbrand Italia.

C’è chi scende e chi sale

Vero e proprio simbolo del capitalismo americano, la Coca-Cola si è piazzata anche quest’anno in testa alla graduatoria, per un valore stimato di 68,73 miliardi di dollari. Seguono IBM, Microsoft e General Electric, mentre il primo marchio europeo è Nokia, al quinto posto, seguito ancora dallo statunitense Mc Donald’s. Al settimo posto figura Google, che nel 2008 era già salito dal ventesimo al decimo rango e che presenta l’incremento di valore più forte (25% a 31,98 miliardi).

A perdere terreno, invece, sono soprattutto i marchi legati al mondo della finanza. Tra questi anche l’UBS che in un anno ha visto il suo valore dimezzarsi, scendendo dal 41° al 72° posto. «A venir meno è stata soprattutto la fiducia nei confronti di questa e di altre banche, che stanno vivendo una crisi di reputazione. Finora – inoltre – l’UBS non ha investito molto per sostenere il proprio marchio, anche se i recenti cambiamenti ai vertici testimoniano la volontà di voltare pagina».

Per altro, a voler guardare il bicchiere mezzo pieno, ad UBS è andata sicuramente meglio che ad altri, sottolinea Manfredi Ricca. «Società come la ING o l’American International Group sono scomparse dalla classifica dei 100 marchi a più alto valore economico al mondo, mentre l’UBS resiste ed ha tutte le carte in regola per ripartire».

Coerenza, innovazione e un pizzico di genialità

Tanto potere in un solo nome o in un simbolo è quasi difficile da credere. Eppure dalla gestione più o meno adeguata di un marchio può davvero dipendere il valore economico dell’azienda stessa e la sua influenza sul mercato. Al di là degli aspetti estetici, qual è la chiave di successo di un logo?

«Un marchio di valore deve prima di tutto avere un posizionamento chiaro, una filosofia esplicita e coerente», spiega Manfredi Ricca. «Può trattarsi di un’associazione di elementi molto razionali e funzionali, oppure di un universo emotivo di riferimento in cui molte persone si riconoscono: l’importante è che tutti riescano ad associare a questo brand la stessa cosa, che il messaggio sia unico e inconfondibile». Così, se la Apple diffonde un’immagine di creatività e facilità nell’uso, la Nike si concentra sulla performance e sull’idea di vittoria.

Coerenza non deve però far rima con immobilismo, prosegue Ricca. «Per essere competitivo, un marchio deve saper innovare restando fedele alla sua filosofia originale. Coca Cola è un marchio che ha 123 anni, ma è sempre sulla cresta dell’onda perché ha fatto dell’innovazione il suo punto di forza».

Siamo ciò che compriamo

Al di là del valore prettamente commerciale, il marchio ha anche un valore simbolico. Se chiunque può produrre delle scarpe da ginnastica, in pochi riescono a rappresentare qualcosa di più di un semplice strumento per la corsa. La forza di una marca sta proprio nel permettere alla gente di identificarsi in un prodotto e di esprimere parte della propria identità.

Come dire che in fondo siamo ciò che compriamo? «Probabilmente non è un caso che nella maggior parte delle lingue latine, i due verbi fondamentali siano essere e avere», spiega Manfredi Ricca. «Credo però che la recessione abbia dato una spinta importante verso una maggiore sobrietà, consapevolezza e autenticità. Oggi non basta più mostrare un’immagine patinata, ma ci vuole anche la sostanza».

La marca che scegliamo rappresenta dunque una parte della nostra personalità, nel bene o nel male. “Siamo ciò che compriamo” non è soltanto il messaggio intrinseco veicolato da una delle cento multinazionali presenti nella classifica Interbrand, ma anche un appello a dei consumi più consapevoli e solidali, contro queste stesse logiche di mercato. È un altro modo di affermare la propria individualità, scegliendo di non scegliere o per meglio dire privilegiando ciò che la massa ha scelto di non privilegiare.

Stefania Summermatter, swissinfo.ch

Nata a Londra nel 1974, la Interbrand ha messo a nudo in questi anni oltre 3’500 società, definendo il marchio aziendale come un bene ad alto valore economico.

I marchi presi in considerazione devono essere globali, ossia generare un fatturato superiore ai 2,1 miliardi di dollari nel mercato globale.

Questo spiega perché manca dalla classifica un marchio tra i più noti al mondo, quello del WWF.

Per i marchi presi in considerazione, deve essere disponibile un numero sufficiente di dati finanziari (bilancio annuale, analisi di mercato, articoli, ricerche).

A garanzia dell’assoluta indipendenza della classifica, Interbrand non chiede alle aziende interessate nessun contributo economico e informativo prima della pubblicazione.

Tra i primi cento marchi della classifica Interbrand si inseriscono anche cinque svizzeri (tra parentesi la variazione di valore in percentuale rispetto al 2008):

– 25. Nescafé, 13,32 miliardi (+2%)

– 58. Nestlé, 6,32 miliardi (+13%)

– 68. Rolex, 4,60 miliardi (-7%)

– 72. UBS, 4,37 miliardi (-50%)

– 77. Cartier, 3,97 miliardi (-6%)

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