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I palestinesi, umiliati, hanno bisogno di noi

La delegazione di consiglieri nazionali che si è recata in Israele: da sinistra, Andrea Hämmerle, Anne-Catherine Menétrey e, in primo piano, Ruth-Gaby Vermot Keystone

Una delegazione parlamentare svizzera, di ritorno dai Territori palestinesi, parla della sua esperienza.

Da due mesi i territori palestinesi sono teatro della più imponente offensiva militare israeliana degli ultimi 20 anni. Obiettivo dell’operazione: la cattura di estremisti palestinesi, responsabili degli attacchi terroristici e degli attentati suicidi in Israele. Nel solo mese di marzo sono morti 70 israeliani, vittime di attentati palestinesi.

Tuttavia, alla ricerca di terroristi e di depositi di armi, Israele non si ferma di fronte alla popolazione civile, uccidendo, distruggendo e violando pesantemente i diritti umani. Nel campo profughi di Jenin, dove vivendo 13’000 persone, nelle ultime settimane le forze israeliane hanno compiuto un vero e proprio massacro: 140 edifici sono stati rasi al suolo, altri 200 danneggiati.

Un viaggio per capire

Da 3’000 a 4’000 persone sono senza tetto, il numero dei morti è incerto. Alcune fonti parlano di una sessantina di vittime. La metà sarebbero bambini, anziani e persone handicappate. Il numero esatto dei morti non è noto perché Israele non autorizza nessuno ad indagare.

La commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, che avrebbe dovuto far luce sugli avvenimenti di Jenin, è stata sciolta dal segretario generale Kofi Annan, dopo il categorico rifiuto di Israele di lasciar entrare la commissione nel campo.

Ce l’hanno invece fatta tre deputati svizzeri, due socialisti – la consigliera nazionale Ruth-Gaby Vermot e il consigliere nazionale Andrea Hämmerle – e la consigliera nazionale ecologista Anne-Catherine Menétrey nonché un rappresentante dell’Associazione per i popoli minacciati, che giovedì sono partiti per Israele e lunedì, al loro ritorno in Svizzera hanno raccontato alla stampa le loro impressioni.

I tre parlamentari svizzeri hanno intrapreso questo viaggio per poter rendersi conto sul posto della situazione, per portare alla popolazione la solidarietà della Svizzera e per riuscire a stabilire un contatto con le organizzazioni pacifiste sia palestinesi, che israeliane.

Il massacro di Jenin

“Un parlamentare dovrebbe poter rendersi conto di persona di quanto succede nel mondo”, afferma Anne-Catherine Menétrey, che ammette di aver nutrito qualche timore prima di partire: “ero un po’ preoccupata al pensiero di andare in un Paese in guerra e poi mi chiedevo quale fosse il senso profondo della nostra missione”.

I tre consiglieri nazionali hanno visitato Gerusalemme, Ramallah, la striscia di Gaza e Jenin. Dalla visita al campo profughi in Cisgiordania sono rimasti sconvolti, “spaventati, ma anche toccati”, dice Ruth-Gaby Vermot, presidentessa dell’Associazione per i popoli minacciati, dalla quale è partita l’iniziativa per questo viaggio.

Per Anne-Catherine Menétrey erano “immagini insopportabili. Ho visto gente piena di rancore e persone che semplicemente piangevano, sole, sedute sulle macerie delle loro case”. La consigliera nazionale romanda ricorda anche il sindaco di Jenin, “del quale mi resterà impressa la risata.

Mentre al radiogiornale il presidente americano Bush affermava che il premier israeliano Sharon era un uomo di pace, i carri armati israeliani distruggevano il municipio. Il sindaco ci ha detto: Credo proprio che sia ora di lasciare questi locali e si è messo a ridere.”

Andrea Hämmerle si sofferma invece sulla violenza gratuita: “Non sono state distrutte solo case, i militari israeliani sono penetrati negli uffici delle organizzazioni non governative e hanno spaccato tutti i computer che c’erano.”

L’umiliazione dei controlli

Un altro aspetto che ha colpito i parlamentari svizzeri è stato il sentimento di umiliazione che i palestinesi provano quotidianamente. “Il Check-point fra Gerusalemme e Ramallah è il peggiore: i palestinesi devono subire più volte al giorno le angherie dei soldati israeliani.”

“Gli israeliani lasciano aspettare al sole donne con bambini piccoli, anziani, per ore, a volte per giorni. Fanno finta di minacciarli con le armi. Non lasciano passare le ambulanze. E’ umiliante”, spiega Rut-Gaby Vermot, che ricorda le parole del dottor Haider Abd Al Shafy, capo della delegazione palestinese alla conferenza di Madrid del 1991: “Segregando la gente in questo modo si produce violenza”.

Anche la consigliera nazionale ecologista si dice sconvolta dall’arroganza dei militari israeliani. Anne-Catherine Menétray fa alcuni esempi: “Un bel giorno una gru scarica un mucchio di terra sulla strada davanti al check-point e la strada è bloccata. Così, per motivi di sicurezza. A un contadino i militari sradicano tutti gli alberi, così, per motivi di sicurezza. Ammiro la calma dei palestinesi che subiscono tutto ciò, senza batter ciglio.”

Andrea Hämmerle spiega anche che la striscia di Gaza e la Cisgiordania sono divise in innumerevoli entità. Capita che fra una località palestinese e l’altra vi sia una colonia ebraica. “Per i palestinesi è dunque impossibile non solo recarsi in Israele per lavorare ma anche spostarsi all’interno del loro stesso territorio. Gaza è una prigione”, dichiara Hämmerle, “la metà del territorio è abitata da 6’000 coloni, l’altra metà da 1,2 milioni di palestinesi. Questi ultimi non hanno praticamente acqua potabile. Nelle colonie c’e acqua in abbondanza.”

Palestinesi critici

I palestinesi che la delegazione svizzera ha incontrato non mancano di senso critico. Ammettono che i loro dirigenti non fanno abbastanza, che ci vorrebbe gente nuova, che la società palestinese deve subire un processo di democratizzazione. Ma chiedono più giustizia.

Per quanto riguarda gli attentati suicidi, li condannano, sono convinti che non servono a nulla, anzi, fanno il gioco di Sharon. Alla luce delle costanti umiliazioni, capiscono tuttavia che alcune persone disperate ricorrano a questa arma.

Anche la situazione economica nei territori è disastrosa. Prima dell’Intifada il tasso di disoccupazione era dell’11%, oggi è del 60%. L’80% della popolazione vive sotto il minimo esistenziale.

Giustizia e rispetto

Oltre a chiedere giustizia, i palestinesi chiedono rispetto. Non vogliono più essere obbligati a presentare ogni momento i documenti e a dover subire le angherie dei soldati israeliani. Un primo passo verso una “de-escalation” sarebbe quella di abolire i “famigerati” check-point.

I palestinesi auspicano inoltre l’intervento e l’interessamento della comunità internazionale. Vedrebbero dunque con piacere una forza di pace internazionale in Cisgiordania e a Gaza.

Chiedono inoltre che quanto è successo a Jenin venga riconosciuto come un crimine di guerra e che si discuta della problematica degli insediamenti ebraici. La metà di queste colonie sono vuote, nonostante gli appartamenti siano più lussuosi e più a buon mercato.

Andrea Hämmerle vede dietro a questi insediamenti lo spettro dell’ideologia, più che la necessità di sicurezza. Un altro importante passo verso la pace potrebbe essere l’ottenimento da parte dei palestinesi dello statuto di osservatore in seno al Consiglio d’Europa, alla stregua di Israele.

Visioni svizzere

La delegazione svizzera è stata accolta calorosamente nei Territori palestinesi. Per gli abitanti delle martoriate zone anche un semplice gesto di solidarietà vale tanto. La Svizzera, quale piccolo Paese neutrale potrebbe fare molto a vari livelli: contribuire a chiarire quanto è successo realmente a Jenin, impegnarsi nella ricostruzione di quanto è stato distrutto e fungere da mediatore nell’ambito della riconciliazione fra i due popoli. Nel caso di una conferenza di pace internazionale, la Svizzera potrebbe farsi avanti.

Secondo Anne-Catherine Menétray Berna dovrebbe comunque congelare i rapporti con Israele e allargare l’attività della missione diplomatica svizzera a Ramallah, in Cisgiordania. “Il lavoro umanitario del nostro responsabile presso la popolazione palestinese è ottimo. Dovrebbe poter contare su più personale”, dice Andrea Hämmerle.

La collega ecologista cita il capo della missione elvetica, Nicolas Lang: “Quello che succede qui non verrebbe tollerato in altre parti” e conclude: “Ora so che questa mia visita aveva un senso”.

Elena Altenburger

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