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I volontari svizzeri del Terzo Reich: una realtà scomoda

Prigionieri di guerra, mentre trascinano una slitta. www.hmsg.ch

"Freddo, fame e nostalgia" è il titolo della mostra che il Museo Storico di San Gallo ha dedicato alla prigionia dei militari tedeschi in Unione Sovietica tra il 1941 e il 1956, in mezzo ai quali si trovavano molti svizzeri che avevano combattuto a fianco dei tedeschi.

Che accanto ai militari tedeschi rimasti per lungo tempo prigionieri nei campi dell’Unione Sovietica ci fossero anche parecchi svizzeri è sicuramente una parte poco nota della nostra storia con la quale il museo di San Gallo ha deciso di confrontarsi.

“A fianco dei nazisti combatterono oltre 2000 volontari svizzeri, ma quanti di essi furono fatti prigionieri non è noto”, dichiara a swissinfo Nathalie Zellweger che ha curato l’esposizione.

Destinazioni e motivazioni

Avere la nazionalità tedesca era un presupposto necessario per essere arruolati nella Wehrmacht e come emerge nella mostra, erano infatti molti i volontari svizzeri ad essere in possesso della doppia nazionalità. Gli altri erano stanziati soprattutto nei reparti di difesa delle SS, in particolare nella 6^ divisione di montagna.

Di un’età compresa tra i 17 e i 25 anni, gli svizzeri che combatterono accanto ai nazisti, provenivano soprattutto dai cantoni di Berna e Zurigo e appartenevano un po’ a tutti gli strati sociali.

Essi non entrarono al servizio della guerra straniera esclusivamente perché simpatizzanti del nazionalsocialismo tedesco. La lotta al bolscevismo, la ricerca di un lavoro o di un’avventura, ma anche problemi di relazione, ne furono spesso le motivazioni.

Sebbene illegale, questa scelta non era comunque vissuta come una forma di opposizione al proprio paese, tanto che molti volontari si arruolarono sotto la condizione di non mettersi mai contro la patria.

Il punto di partenza

“Nella mostra presentiamo la vicenda di uno di loro, il san gallese Robert Prinzing”, ci dice Nathalie Zellweger. “Sappiamo che ce ne furono altri che nel frattempo però sono tutti morti, come è morto anche Prinzing, 8 anni fa, ma i discendenti ci hanno messo a disposizione i suoi documenti e le sue memorie.”

In effetti, 2 anni fa è stato proprio il figlio di Robert Prinzing a proporre al museo san gallese di allestire una mostra su questo tema. “Per me è stato importante poter raccontare questa storia”, ci dice Andy Prinzing.

“Mio padre rimase prigioniero per 4 anni dal 44 al 48. Quando ero bambino o adolescente non mi rendevo molto conto del suo passato. Ogni tanto emergevano dei frammenti, parlava di un cucchiaio, della fuga, della fame, ma non riuscivo a combinarli insieme. Per fortuna però quelle cose le ha scritte, probabilmente molto presto e a noi le ha date solo più tardi. Prima il tema era tabù.”

Cuore dell’allestimento

I ricordi e le testimonianze che Robert Prinzing scrisse agli inizi degli anni 50, alcune fotografie, documenti relativi alla sua prigionia e utensili della vita quotidiana costituiscono, insieme ad altri oggetti messi a disposizione da ex militari tedeschi naturalizzati svizzeri, il nucleo della mostra.

Si tratta di cucchiai, coltelli, ma anche pipe, porta sigarette, giochi degli scacchi, fabbricati dai prigionieri con materiali di fortuna -come legno, resti di metallo, chiodi battuti- per alleviare la vita di prigionia.

Una vita certamente dura perché, come fa presente la mostra, in quegli anni la stessa popolazione sovietica moriva di fame, di freddo e di stenti. Viene anche ricordato che il trattamento riservato ai prigionieri tedeschi fu, malgrado tutto, migliore di quello che dovettero subire i militari sovietici in Germania.

Il rientro in patria

La decisione presa nel maggio del 1943 dal Consiglio Federale fu comunque chiara: i cittadini svizzeri che avevano cooperato con il Terzo Reich erano privati della cittadinanza, sentenza che, fino alla fine del 1945, fu applicata a 29 casi.

Al loro rientro in patria i volontari svizzeri vennero processati dalla giustizia militare e la misura della punizione dipendeva dalla reputazione civile e militare e dai motivi che li avevano spinti al servizio nell’esercito straniero. Agli ex prigionieri come Robert Prinzing fu riservato però un trattamento diverso e in molti casi non ci fu alcun processo.

“Quando il consiglio federale agli inizi degli anni 50 ricevette la richiesta di mio padre di poter tornare in Svizzera, le autorità tennero conto dei 4 anni di prigionia in Unione Sovietica consentendogli di rimpatriare senza dover subire ulteriori sanzioni”, dichiara Andy Prinzing.

Un effetto esplosivo

Il tema affrontato in questa piccola ma significativa esposizione è problematico, oscuro e in grado di creare ancora oggi grande irritazione. E che la mostra avrebbe avuto un effetto esplosivo, agli organizzatori è stato probabilmente chiaro fin dall’inizio, visto che amici del museo hanno annunciato di farsi cancellare dalla lista dell’indirizzario e alcuni sponsor hanno rifiutato i loro contributi.

Tuttavia, come ha sottolineato il direttore del museo Daniel Studer, fa parte dei compiti di un museo mostrare soggetti controversi, affrontare i tabù e cercare di far luce su avvenimenti di cui è più facile non parlare e la mostra si sforza, quantomeno, di affrontare il tema con lo sguardo più obiettivo possibile.


swissinfo, Paola Beltrame, San Gallo

La mostra “Freddo, fame e nostalgia” in corso al Museo Storico ed Etnologico di San Gallo rimarrà aperta fino al 13 settembre 2009.

Accompagnano l’esposizione numerosi incontri tra cui si ricorda la tavola rotonda del 6 dicembre alle 14 alla quale prenderanno parte ex prigionieri che oggi vivono in Svizzera.

Nel 1941 la Germania attacca la Russia e ottiene i primi successi nel corso dei quali sono incarcerati circa 3.5 milioni di soldati sovietici: entro la fine dell’anno 2 milioni muoiono di fame. Nel corso di tutta la guerra i russi fatti prigionieri dai tedeschi raggiungono i 5 milioni.

All’inizio del 1943 sono circa 120.000 i soldati delle forze armate tedesche divenuti prigionieri sovietici, ma al momento della resa, l’8 maggio 1945, il numero raggiunge i 2,5-3 milioni.

A guerra finita sono fatti rientrare in patria solo i prigionieri tedeschi che non possono lavorare, gli altri, dopo essere stati condannati da un tribunale come criminali di guerra, vengono trattenuti e usati come forza lavoro per ricostruire il paese. Nell’aprile 1947 gli alleati si accordarono con Mosca per il rimpatrio di tutti i prigionieri entro la fine del 1948.

Ma la Russia non si attiene all’accordo e la maggior parte dei prigionieri è rilasciata a partire dal 1949. Alla fine del primo trimestre 1950 fanno ritorno in patria più di 3 milioni di prigionieri di guerra e di civili. Gli ultimi sono rilasciati nel 1956.

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