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Piccolo paese, poche aspettative

Swiss Miniature a Melide: metafora della Svizzera? Keystone

La stampa svizzera sembra aspettarsi molto dalla nuova ministra degli esteri Micheline Calmy-Rey.

Ma gli osservatori stranieri non prevedono grandi cambiamenti nella politica estera elvetica.

“Constato una notevole continuità e affidabilità nella politica estera svizzera”, dice Michael Bergius, corrispondente del quotidiano tedesco Frankfurter Rundschau a Bruxelles. “Da osservatore esterno non la considero tuttavia una debolezza. Trovo anzi positivo che non ci sia il classico cambiamento di sistema ogni quattro anni.”

L’assenza di un’alternanza comporta però una certa staticità. “Non ho visto finora grandi impulsi di politica estera provenienti dalla Svizzera”, osserva Rainer Sütfeld, corrispondente dalla sede ONU di New York per il secondo canale della televisione tedesca ARD. “Percepisco la Svizzera come un paese molto neutrale, nel vero senso della parola.”

L’ostacolo della neutralità

La tradizionale neutralità svizzera è considerata anche da Sergio Romano, ex-ambasciatore italiano a Mosca, storico ed editorialista della Stampa di Torino, un problema per la futura evoluzione della politica estera elvetica.

“Se la Svizzera vuole continuare ad essere neutrale nel modo in cui ha interpretato finora la neutralità- dice Romano – non può che fare una politica conservativa, che è inevitabilmente una politica solo reattiva e di basso profilo.”

Un maggiore dinamismo dovrebbe perciò passare per una nuova concezione della neutralità. “Buona parte dell’elite svizzera ha capito che il mondo è cambiato e che è difficile difendere gli interessi nazionali da una posizione di isolamento”, afferma Clive Church, professore di scienze politiche e relazioni internazionali all’università inglese di Kent.

La ricetta del professore inglese è chiara: “Bisogna imboccare la via di una maggiore cooperazione e di un maggior impegno sul piano internazionale e questo richiede una revisione del concetto di neutralità.”

Gli fa eco Sergio Romano: “La Svizzera deve decidere cosa vuol fare, cosa vuol essere. Lo so che è difficile, perché il paese ha una lunga tradizione di politica della neutralità fatta con particolare abilità. Ma questa politica è anacronistica, appartiene ormai a un’epoca conclusa. La Svizzera deve inventarsi un nuovo modo di stare al mondo.”

La novità delle Nazioni Unite

Tuttavia, agli osservatori non sfugge l’elemento di novità rappresentato dall’adesione della Svizzera alle Nazioni Unite.

“La Svizzera a lungo non ha avuto gli strumenti organizzativi per sviluppare la sua politica estera”, constata il professor Church. “Ma le cose stanno lentamente cambiando, con l’ingresso nella Banca mondiale e ora in particolare con l’adesione all’ONU. Credo che questo renderà molte cose più facili.”

Per il corrispondente dell’ARD Sütfeld, nel tentativo dei paesi europei di avere una linea comune e un peso maggiore nelle Nazioni Unite la Svizzera potrebbe avere “un ruolo molto importante”.

Lo pensa anche un profondo conoscitore della diplomazia svizzera come l’ex Segretario di stato e ambasciatore svizzero Edouard Brunner, che considera l’impegno svizzero nelle Nazioni Unite prioritario anche rispetto alla questione dei rapporti con l’Europa.

“Come membro dell’ONU, la Svizzera può raggiungere qualcosa. La Svizzera potrebbe dare il suo contributo alla risoluzione di conflitti. Non in Irak, ma in conflitti regionali come quelli dell’ex-Jugoslavia, del Sudan o dello Sri Lanka, sfruttando la sua esperienza nel rapporto con le minoranze.”

Ma questo nuovo orientamento necessita, secondo Brunner, di un ripensamento di vecchie categorie della diplomazia svizzera: “La tradizionale politica dei buoni uffici era pensata per i conflitti internazionali, ora dovrebbe essere adattata.”

“La maggior parte dei conflitti è oggi interna agli stati”, osserva. “Dopo il 1991 la Svizzera non ha saputo adattare la sua politica alla nuova situazione internazionale.”

Il difficile rapporto con l’Europa

All’estero c’è anche una chiara consapevolezza della difficile posizione della Svizzera, e in particolare del governo svizzero, di fronte al processo di unificazione europea.

“Credo che la classe dirigente svizzera abbia già fatto in cuor suo la scelta di avvicinarsi gradualmente all’Unione europea – dice Sergio Romano – ma è confrontata con una forte componente della società ostile a un’adesione all’Unione europea.”

Per Diana Wallis, deputata inglese al Parlamento europeo, l’adesione della Svizzera all’UE sarebbe un passo logico. “Basta guardare la carta geografica, con questo punto rosso in un mare blu.”

La deputata vede il maggior ostacolo nella democrazia diretta: “Penso che la percezione svizzera della propria democrazia diretta renda l’adesione all’Europa più difficile. Molti svizzeri hanno l’impressione che l’Europa abbia un deficit democratico.”

Per nulla problematica è invece a suo avviso la neutralità: “Basta pensare ad un paese come la Finlandia e alla storia della sua neutralità. I finlandesi sono riusciti a combinare neutralità e adesione all’Europa.”

Uno spazio di manovra limitato

Ma saprà la nuova consigliera federale Micheline Calmy-Rey dare nuovi impulsi alla politica estera di un paese che appare ancora alla ricerca della sua posizione sul piano internazionale?

Il compito non è facile. Lo spazio di manovra per un ministro degli esteri svizzero è limitato dal suo essere parte di un organo collegiale in cui anche gli altri capi dipartimento hanno competenze che riguardano le relazioni internazionali del paese.

Come notava laconicamente il Rapporto 2000 del Consiglio federale sulla politica estera, “in politica estera, alla fattibilità sono posti spesso limiti molto stretti.”

swissinfo, Andrea Tognina

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