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Missioni di pace: un “virus pericoloso”

Jvan Ricciardella, nel febbraio scorso, a contatto con la popolazione afghana a Kunduz, nel nord del paese Swissint

Il 29 maggio ricorre la giornata internazionale dell’ONU dedicata ai “peacekeeper”, donne e uomini impegnati in tutto il mondo per il mantenimento della pace.

Tra di loro, anche centinaia di svizzeri attivi ogni anno in una decina di paesi.

“Seppure nel proprio piccolo, qualcosa si può fare”, si dice convinto Jvan Ricciardella, appena ritornato dall’Afghanistan, dove è stato impiegato per alcuni mesi come ufficiale di collegamento, con funzioni di osservatore militare.

Il capitano dell’esercito svizzero ha già alle spalle altre missioni di lunga durata nel Caucaso e nei Balcani.

“Da un lato, volevo mettere in pratica le conoscenze teoriche ricevute in Svizzera. E, dall’altro, volevo impegnarmi per una causa, come la pace, che può essere considerata solo giusta e positiva”, spiega Ricciardella.

Anche per il volontario svizzero è ben chiaro che in paesi, come l’Afghanistan, la pace rimane ancora molto lontana. Ma quasi ovunque ha potuto constatare il sostegno della popolazione, soprattutto civile.

“Dopo anni di guerre e sofferenze, la maggior parte della gente esprime la propria gratitudine. I membri delle forze dell’ONU sono visti come qualcuno che aiuta a migliorare le condizioni di vita, che apporta maggiore stabilità e sicurezza”.

Condizioni più reali

Come Jvan Ricciardella, alcune centinaia di svizzeri, uomini e donne, partono ogni anno come volontari per delle missioni di pace in Africa e in Asia, ma anche in Europa.

Ma cosa spinge queste persone ad abbandonare la tranquillità svizzera per affrontare situazioni quasi sempre difficili e spesso anche pericolose?

Finora oltre 1’900 caschi blu e berretti blu hanno perso la vita al servizio della pace. E, tra di loro, anche 3 “peacekeeper” svizzeri.

“Alla base di questo impegno vi è quasi sempre la volontà di fare qualcosa di ‘utile’ anche nell’esercito. Dopo anni di istruzione, molti vogliono sperimentare degli interventi in condizioni più reali”, spiega Adrian Baumgartner, responsabile della comunicazione di Swissint, il centro di comando per gli interventi dell’esercito svizzero all’estero.

“Numerosi volontari sono inoltre interessati a conoscere altre culture, magari anche per superare i propri pregiudizi nei confronti di altri popoli. Pensiamo soltanto alla gente dei Balcani, nei cui confronti gli svizzeri nutrono molti preconcetti”, aggiunge Adrian Baumgartner.

Specchio dell’economia

Benché il salario dei berretti blu non sia particolarmente attrattivo, anche l’aspetto economico rappresenta una delle ragioni che attirano i soldati svizzeri all’estero.

“Il numero di candidature per gli interventi all’estero rispecchia la situazione economica in Svizzera: in tempi di crisi è molto alto, mentre in tempi normali si presentano meno candidati”, rileva il capo della comunicazione di Swissint.

Così, negli ultimi due anni, caratterizzati da una nuova stagnazione economica, le candidature sono nuovamente aumentate. Nell’ambito dell’ultimo concorso vi erano oltre 900 candidati per i circa 220 posti disponibili.

I requisiti che vanno soddisfatti per seguire i corsi speciali di formazione e poter partire all’estero non sono comunque alla portata di tutti.

Oltre a buone condizioni di salute e conoscenze linguistiche sono richieste anche determinate qualità psicologiche, come la disponibilità a lavorare in gruppo, una buona resistenza allo stress e una certa solidità mentale per sopportare privazioni e insicurezze.

Contagiati dal virus

Benché questi interventi all’estero rappresentino spesso una dura prova psicologica e fisica, molti berretti blu svizzeri si annunciano nuovamente per altre missioni.

“Per molta gente è come un virus. Chi ha provato simili esperienze ne viene quasi sempre contagiato”, spiega Adrian Baumgartner

“Si vive in un’altra atmosfera, si provano altre realtà, si impara a seguire un ordine e ritmo di vita diverso dal nostro. E, di solito, si devono assumere responsabilità molto più grandi che non nella vita quotidiana in Svizzera”.

E anche l’incontro con persone di altre culture e mentalità sembra lasciare il segno sui berretti blu svizzeri.

“Chi trascorre mesi interi in situazioni difficili in compagnia, ad esempio, di un collega cinese, di un pakistano e di un australiano non può rimanere indifferente a questi incontri. Anche se può suonare un po’ patetico, ne nascono spesso amicizie per tutta la vita”, aggiunge Baumgartner, che ancora oggi intrattiene intensi contatti con le persone incontrate durante una sua missione in Bosnia-Erzegovina.

Difficoltà di reintegrazione

Dopo anni di vita all’estero, anche non pochi berretti blu incontrano invece difficoltà a reintegrarsi nella vita quotidiana in Svizzera e a riadattarsi al nostro modo di vivere.

“Tra le nostre responsabilità vi è anche quella di evitare che i volontari non vengano impiegati continuamente per delle missioni all’estero. A volte dobbiamo quasi trattenerli, per evitare che, prima o poi, finiscano in Svizzera nella rete sociale”, sottolinea Adrian Baumgartner.

“Si ritorna generalmente con uno sguardo diverso”, conferma Jvan Ricciardella. “Oggi mi rendo conto di non dare più la stessa importanza alle solite discussioni o liti quotidiane. Mi capita spesso di dire che questi non sono dei problemi. I veri problemi sono altrove”.

swissinfo, Armando Mombelli

1948, prima missione di pace dell’ONU, con l’impiego di osservatori militari in Palestina.
1953, la Confederazione partecipa per la prima volta ad una missione di pace dell’ONU: 93 militi sono inviati in Corea per sorvegliare l’armistizio.
Dal 1989, l’esercito svizzero ha messo a disposizione in diversi altri paesi in guerra osservatori militari, supervisori, sminatori e personale medico.
Nel 1994, il popolo svizzero ha respinto la proposta di impiegare dei caschi blu.
Nel 2001, i votanti hanno approvato invece la richiesta di armare i berretti blu svizzeri impegnati all’estero.

Attualmente 5 osservatori militari svizzeri sono regolarmente stazionati a Panmunjon, sulla linea di demarcazione tra le due Coree.

20 ufficiali dell’esercito elvetico sono impiegati in missioni di pace al servizio dell’UNTSO, nel Vicino Oriente, dell’UNOMIG, in Georgia, del MONUC, nella Repubblica democratica del Congo, e dell’UNMEE, in Etiopia-Eritrea.

La Svizzera partecipa inoltre con un effettivo massimo di 220 volontari armati alla missione di pace in Kossovo (KFOR).

4 ufficiali superiori sono presenti invece in Afghanistan, in sostegno delle forze dell’ONU.

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