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Quando il franco si rinfranca

Keystone

La crisi finanziaria internazionale ha restituito al franco svizzero il ruolo di moneta rifugio a scapito dell'euro. Un rafforzamento dai toni sfumati, tra contraccolpi ed effetti più confortanti.

Perfino gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti non avevano intaccato così brutalmente la stabilità della moneta unica europea. In poco meno di una settimana, l’euro ha perso quasi 10 centesimi, pari ad oltre il 5%, per toccare lunedì il suo minimo storico a 1,43 franchi.

L’ultima volta che aveva raggiunto quotazioni così basse era la fine del 2002, quando da 1,60 franchi per un euro si era giunti a 1,45. La situazione era rimasta stazionaria fino al 2003. In seguito la moneta unica europea aveva iniziato la sua ascesa per raggiungere – nell’ottobre 2007 – il picco massimo di 1,68 franchi. In poco più di un anno ha quindi perso quasi il 15% del suo valore rispetto alla valuta elvetica.

All’origine di questo repentino calo dell’euro ci sono due fattori principali, spiega Sergio Rossi, titolare della cattedra di macroeconomia ed economia monetaria all’Università di Friburgo. «Da un lato, la diversa prospettiva per l’andamento congiunturale in Svizzera e nella zona euro, visto che quest’ultima è già entrata in una fase di recessione. Dall’altro lato, l’annunciato taglio dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea, visto che il rischio di inflazione è ora mitigato dal calo dei prezzi del petrolio e di altre materie prime».

In una fase di recessione, puntualizza Rossi, chi ha depositi in euro ha più interesse ad investire in franchi, vista la maggiore stabilità politica ed economica della Svizzera rispetto al resto del mondo. E questo nonostante tassi di interesse più contenuti in Svizzera che nella zona euro.

In piena crisi internazionale, il franco torna dunque a far parte delle cosiddette monete rifugio. Una posizione privilegiata, che ha conseguenze difficili da valutare a medio termine, proprio perché l’andamento dei mercati è più che mai volatile.

Contraccolpi, ma non solo…

Il rafforzamento del franco significa in primo luogo un rincaro delle esportazioni svizzere che risultano meno concorrenziali sul mercato europeo, rileva Sergio Rossi. Le esportazioni di alcuni settori, in particolare l’industria delle macchine e degli strumenti di precisione, rischiano così di venir penalizzate.

Esportazioni più “ballerine”, ma non solo. L’impennata del franco potrebbe infatti ridurre fortemente anche il flusso turistico verso la Svizzera. Se la stagione invernale si prospetta di segno positivo, anche grazie al ritardo con cui questo settore risponde all’andamento della congiuntura, le previsioni sul lungo termine sono meno rosee. Un problema che non è legato soltanto al rincaro dell’offerta, ma anche alla disponibilità di denaro per il consumo durante le ferie.

Il tonfo dell’euro non è comunque soltanto messaggero di cattive notizie per l’economia svizzera. A trarne beneficio saranno le importazioni che, almeno teoricamente, potrebbero tradursi anche in un abbassamento dei prezzi dei prodotti sul mercato elvetico. Senza contare che questa evoluzione dei cambi rappresenta una vera e propria boccata d’ossigeno per i numerosi frontalieri che, negli ultimi anni, avevano visto precipitare il loro potere d’acquisto.

Tasso di interesse al ribasso?

Due facce della stessa medaglia, ma verso quale delle due penderà l’ago della bilancia? Per contrastare il rischio di un calo significativo di esportazioni e turismo, con conseguenze anche sul mercato del lavoro, l’unica arma a disposizione della Banca nazionale svizzera (BNS) – almeno a breve termine – è di rivedere al ribasso il proprio tasso d’interesse direttore.

In teoria, puntualizza Rossi, la BNS dovrebbe prevedere un taglio di almeno mezzo punto percentuale del tasso d’interesse di riferimento per la politica monetaria, sulla scia di quanto previsto nella zona euro, in modo da garantire una certa stabilità del differenziale di interesse tra le due zone monetarie. Un provvedimento che negli Stati Uniti è già stato adottato ben nove volte dall’inizio della crisi e che mercoledì ha portato il tasso direttore al minimo storico dell’1%, in calo di mezzo punto.

Se questa mossa di politica monetaria non dovesse riuscire a contrastare il flusso di capitale verso la Svizzera, al fine di limitare l’apprezzamento del franco e i problemi ad esso legati, il governo federale potrebbe decidere di intervenire, spiega Rossi, aiutando le aziende elvetiche ad esportare a condizioni più vantaggiose, attraverso sussidi mirati. Una strategia che rischia tuttavia di distorcere la concorrenza, creando così qualche malumore a Bruxelles.

Futuro incerto ? Non poi così tanto…

Malgrado la crisi statunitense abbia avuto un impatto importante su tutte le piazze finanziarie, le conseguenze per la Svizzera dovrebbero essere inferiori rispetto ad altri paesi, rassicura Sergio Rossi.

«A risentirne maggiormente sarà l’Unione europea, caratterizzata da una politica unica troppo orientata ad abbassare i prezzi e troppo poco alla stabilità congiunturale. Inoltre, il patto fiscale di stabilità, sancito per dare maggiore credibilità all’euro, impedisce disavanzi pubblici eccessivi, riducendo così il margine di manovra dei governi».

A differenza di altri paesi, dunque, la Svizzera può tirare un sospiro di sollievo. «Una volta stabilizzato il settore bancario – grazie al piano di salvataggio – e rese note le cifre annuali di UBS e Credit Suisse, si potrà ripartire gradualmente su basi più solide, sperando di aver imparato qualcosa da questa crisi».

Sergio Rossi ne è convinto: «Se ci sarà recessione anche in Svizzera, sarà di debole entità e passeggera». Ciò non toglie che il governo dovrebbe riflettere sull’eventualità di varare un piano congiunturale, avanza l’economista, riducendo ad esempio le imposte per i meno abbienti o mettendo in piedi un programma di risanamento di alcune infrastrutture.

«Misure importanti, ma non indispensabili per dare nuovo vigore all’economia elvetica. Anche perché chi mette l’accento sulla qualità e la precisione del prodotto, si risolleva prima di altri dalla bufera».

swissinfo, Stefania Summermatter

Il 1° gennaio 1999 nasceva l’euro sotto forma puramente scritturale. La nuova moneta europea poteva allora essere utilizzata soltanto per le registrazioni su conti bancari, per pagamenti con carte di credito ed operazioni finanziarie tra banche.

Tre anni dopo entravano invece in circolazione (e nel borsellino della gente) le nuove banconote e le monete in euro, che sostituivano così definitivamente le monete nazionali dei paesi che rispettavano i criteri per adottare la moneta unica europea.

L’euro, adottato inizialmente da 12 paesi europei, è oggi in vigore in 15 dei 27 membri dell’Unione europea: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Slovenia, Cipro e Malta. Dal 1° gennaio 2009, la moneta unica europea sostituirà anche la corona slovacca.

Il governo elvetico e la Banca nazionale svizzera hanno varato un piano di aiuto in favore dell’UBS, che ha accumulato titoli illiquidi per 60 miliardi di franchi in seguito alla crisi americana dei mutui ipotecari.

La Confederazione rafforzerà la base di fondi propri dell’UBS, sottoscrivendo un prestito di 6 miliardi di franchi convertibili in azioni. Lo Stato deterrebbe così il 9,3% del capitale azionario della grande banca.

Questo importo sarà prelevato dalla Tesoreria della Confederazione e non graverà sul bilancio delle casse federali. Il credito dovrebbe fruttare oltre 700 milioni di franchi all’anno alla Confederazione, grazie ad un tasso d’interesse del 12,5%.

La Banca nazionale svizzera metterà a disposizione 54 miliardi di dollari (62 miliardi di franchi) per permettere all’UBS di trasferire in una società veicolo gli attivi illiquidi, sgravandosi dei prodotti “tossici” detenuti finora.

Questo fondo viene finanziato con l’assunzione di dollari USA presso la Federal Reserve e prestiti contratti sul mercato.

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