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Un no con quali conseguenze?

Una «domenica nera»: così il consigliere federale Jean-Pascal Delamuraz definì il voto del 6 dicembre 1992.

Dieci anni dopo i pareri sembrano concordanti: il no allo See non ha avuto ripercussioni dirette sull’economia elvetica.

Negli anni Novanta la Confederazione ha vissuto la più grave crisi economica dalla Seconda guerra mondiale. Ma secondo il segretario dell’Unione sindacale svizzera (Uss) Serge Gaillard il rifiuto di aderire allo See non ha contribuito al deterioramento della situazione congiunturale.

«Il no popolare non ha handicappato l’economia elvetica». Inoltre oggi gli accordi bilaterali stipulati con l’Unione europea garantiscono che la maggior parte dei prodotti svizzeri accedano senza discriminazioni ai mercati europei.

Banca nazionale e non See

Fin verso la metà degli anni Novanta l’economia elvetica si è incanalata lungo una parabola discendente. Il prodotto interno lordo ha ricominciato a salire solo dal 1997 pur se il tasso di crescita è rimasto inferiore a quello dei paesi UE.

Ma secondo Gaillard, lo See non c’entra. La crisi economica e l’alta percentuale di disoccupati di allora sono invece da ricondurre alla politica restrittiva che venne adottata dalla Banca nazionale svizzera, dalla Confederazione e dai cantoni.

Lo See, conclude Gaillard, «avrebbe comunque rappresentato la soluzione più facile per assicurare l’integrazione della Svizzera nei mercati europei». E in vista di nuovi accordi con l’UE «il fatto che la Svizzera non abbia sottoscritto il trattato ne indebolisce la posizione».

Dello stesso parere è Bernd Schips, direttore del centro di ricerche congiunturali (KOF) del Politecnico di Zurigo: «gli specialisti sono concordi nell’affermare che il rigore finanziario dei poteri pubblici e la politica eccessivamente restrittiva della BNS contribuirono ad alimentare la spirale negativa». I pareri divergono solo sulla portata dei singoli provvedimenti.

Azione o reazione?

Prima e dopo la votazione del 1992, spiega Schips, vennero realizzati numerosi studi con la partecipazione del professore sangallese Heinz Hauser: tutti affermavano che l’esito negativo dello scrutinio non avrebbe avuto effetti diretti – positivi o negativi – sull’economia.

La valutazione quantitativa delle conseguenze di quel voto è peraltro talmente complessa da essere praticamente irrealizzabile.

Schips ricorda comunque che rifiutando l’adesione la Svizzera è rimasta fuori da «certi automatismi in materia di politica economica», che hanno rallentato il ritmo delle riforme verso la liberalizzazione.

La Svizzera, invece di agire, ha reagito alle decisioni dell’UE: in questo contesto «il processo di integrazione rappresenta un motore per le riforme all’interno dell’Europa ma anche in Svizzera».

Il mercato più grande

Lo See costituisce attualmente il più grande mercato del mondo occidentale: entrò in vigore nel 1994 in virtù di un trattato stipulato dall’Unione europea, che contava 12 membri, e dall’Assciazione europea di libero scambio (sette paesi contando anche la Svizzera).

Da allora le cose sono però cambiate: Austria, Finlandia e Svezia hanno aderito nel 1995 all’UE e i soli paesi partner dell’Unione rimangono ora Norvegia, Islanda e Liechtenstein.

Le tre nazioni approfittano di agevolazioni e in particolare della libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone. Hanno diritto di consultazione nella definizione del diritto comunitario relativo allo See, ma le decisioni vengono comunque prese esclusivamente dai Quindici.

Bilancio modesto

Il bilancio di otto anni di See è relativamente modesto: Norvegia e Islanda considerano il trattato «superato» nell’imminenza dell’allargamento dell’UE ad est e ritengono che non sia più uno strumento adeguato per difendere i loro interessi a Bruxelles.

Hanno perciò proposto una serie di correttivi, ma Bruxelles ha risposto in modo tiepido suscitando l’impressione che la riforma dello See non sia per niente considerata una questione prioritaria.

swissinfo e agenzie

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