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Tremila pagine di storia per far luce sul passato prossimo

I lavoratori forzati nelle aziende svizzere con sede nel Terzo Reich ed i rapporti delle industrie elettriche e chimiche con la Germania nazista sono alcuni dei temi sui quali fanno luce gli otto volumi swissinfo.ch

La Commissione indipendente di storici Svizzera-Seconda guerra mondiale (commissione Bergier) ha presentato giovedì a Berna i primi otto volumi dei 25 che comporranno l'apparato storiografico del rapporto finale, previsto per i primi mesi del prossimo anno. Al centro degli studi soprattutto le relazioni economiche tra la Svizzera e i paesi dell'Asse, la Germania nazista in particolare.

Dopo cinque anni di lavoro, molte polemiche, alcuni rapporti intermedi – tra cui in particolare quelli sulla politica svizzera verso i rifugiati e le transazioni in oro durante il secondo conflitto mondiale – la Commissione indipendente di storici Svizzera-Seconda guerra mondiale (CIE o più comunemente commissione Bergier, dal nome del suo presidente) si è avvicinata dunque alle battute finali.

L’attesa, certo, non è più quella dei primi mesi dopo l’istituzione della commissione. Ma l’interesse per il lavoro della commissione e della sua cinquantina di collaboratori scientifici è ancora vivo: lo dimostra il numeroso pubblico accorso alla conferenza stampa nella Biblioteca nazionale di Berna.

Ora finalmente i primi otto volumi dell’ampio apparato storiografico che sta alla base del rapporto Bergier vero e proprio, promesso per l’inizio del 2002, potranno essere allineati in bell’ordine sugli scaffali. E potranno anche essere letti. Con la dovuta attenzione, si spera. Alla fine, la collezione integrale di 25 + 1 volumi potrebbe prendersi un intero ripiano, offrendo una dettagliata panoramica sulla storia economica e politica della Svizzera negli anni del fascismo e del nazismo.

In attesa di una lettura approfondita…

“Per quali possano essere le pecche del nostro lavoro, che i lettori, i colleghi che ci attendono al varco si affretteranno a denunciare”, ha tenuto a precisare durante la conferenza stampa di presentazione il presidente della CIE Jean-François Bergier, “noi apriamo in ogni caso una miniera di informazioni solide, che andranno a beneficio della ricerca futura. Nessuno potrà rimproverare ai collaboratori della commissione di essere stati pigri, negligenti o malintenzionati.”

Certo, osservando la pila di otto tomi, di pigrizia non si può parlare. Ma per le critiche, anche se benevole, è ora naturalmente troppo presto. Le pagine da leggere sono pur sempre più di tremila. Si può però cominciare a riferire degli argomenti affrontati negli otto volumi presentati giovedì, se non altro per invogliare a prenderli in mano.

I temi degli otto volumi

Inizialmente la CIE avrebbe dovuto occuparsi, come noto, solo del tema dei fondi in giacenza nei conti delle banche svizzere. Ma sull’argomento si doveva già chinare la commissione Volcker, dotata di un solido budget di alcune centinaia di milioni, rispetto ai quali i 22 milioni spesi per la commissione Bergier non sono poi gran cosa.

Supportata dal mandato governativo che gli conferiva ampio accesso agli archivi pubblici e privati e da una forte domanda di chiarezza su vari aspetti dell’atteggiamento della Svizzera negli anni attorno alla Seconda guerra mondiale, la CIE ha così allargato il suo approccio. Sono rimasti centrali, come si constata anche dagli otto volumi ora presentati, i temi economici, ma non sono mancate esplorazioni in altri ambiti.

Clearing e Interhandel

Di un tema centrale per le relazioni economiche fra la Svizzera e le potenze dell’Asse si occupa il volume redatto da Stefan Frech, dedicato al traffico dei pagamenti (clearing). Stipulati nel corso degli anni Trenta con Germania e Italia, gli accordi di clearing inserirono in pieno la Svizzera nello spazio economico del nuovo ordine europeo. Nell’ambito degli accordi, la Svizzera concesse prestiti per 1,121 miliardi di franchi alla Germania e di 290 milioni all’Italia. I crediti servirono ai due paesi soprattutto per l’acquisto di materiale bellico in Svizzera. Per l’autore una chiara violazione della neutralità elvetica.

Durante gli accesi dibattiti a metà degli anni Novanta sul ruolo della Svizzera nel conflitto mondiale, un nome aveva fatto ripetutamente capolino: quello della Interhandel. Nata a Basilea nel 1928/29 come holding finanziaria del gruppo tedesco IG Farben (fino al 1945 con il nome di IG Chemie) e investita della proprietà di importanti stabilimenti chimici negli USA, la Interhandel fu oggetto di un’aspra battaglia giuridica nel dopoguerra.

Nel 1942 gli USA avevano confiscato le fabbriche della IG Chemie sul proprio territorio, ritenendole patrimonio del nemico. Ma nel dopoguerra i proprietari svizzeri rivendicarono i beni confiscati, sostenendo la completa separazione fra IG Farben e IG Chemie dal 1940. Lo studio di Mario König permette ora di fare maggiore chiarezza sulla complessa vicenda, in cui a partire dalla fine degli anni Cinquanta ebbe un ruolo chiave l’Unione di Banche Svizzere (UBS).

Chimica ed elettricità

Gli studi di Jean-Daniel Kleisl, rispettivamente di Lukas Straumann e Daniel Wildmann, si occupano invece delle relazioni delle industrie elettriche e chimiche svizzere con il Terzo Reich. Anche qui vengono alla luce gli stretti rapporti economici tra i due paesi ed il sostanziale orientamento al profitto delle imprese elvetiche, indipendentemente dal contesto politico in cui agivano.

Le industrie chimiche basilesi prese in esame – Geigy, Ciba, Hoffmann-La Roche e Sandoz – operavano in territorio tedesco nella piena consapevolezza, secondo gli autori, della situazione politica ed economica, integrando le informazioni disponibili nelle loro strategie aziendali. Ciò, assieme agli ottimi contatti con le gerarchie governative naziste, permise loro di mantenere una notevole libertà di manovra. Una libertà che a volte poteva anche rappresentare una limitata resistenza alle direttive naziste: così in Germania la Roche licenziò i suoi impiegati ebrei solo nel 1937/38, quattro o cinque ani dopo le sue “consorelle”.

Per quel che riguarda l’industria elettrica, lo studio di Kleisl mette in rilievo l’importanza delle forniture elvetiche al Terzo Reich, dalla metà degli anni Trenta il primo cliente per volume di importazioni delle compagnie elettriche svizzere. Secondo l’autore, le forniture elettriche ebbero un ruolo preponderante nel far desistere la Germania nel 1943 dal lanciare un’offensiva economica contro la Confederazione.

Lavoro forzato, stampa, ferrovie, opere d’arte

Gli altri quattro studi si occupano rispettivamente dell’impiego di lavoratori forzati da parte delle imprese svizzere nel Terzo Reich (Christian Ruch, Myriam Rais-Liechti, Roland Peter), dell’atteggiamento della stampa elvetico rispetto alle questioni dei rifugiati e della politica commerciale (Kurt Imhof, Patrik Ettinger, Boris Boller), del transito ferroviario attraverso la Svizzera negli anni della guerra (Gilles Forster) e del trasferimento e passaggio di beni culturali in fuga o depredati in Svizzera (Esther Tisa Francini, Anja Heuss, Georg Kreis).

Lo studio sul lavoro forzato, pur non avendo la pretesa di offrire una sintesi globale della questione e analizzandola anzi solo in termini esemplari, promette di offrire molti elementi di novità. L’analisi dei documenti conservati negli archivi delle aziende ha infatti permesso agli autori di capire le informazioni e l’influsso che le case madri in Svizzera avevano sull’impiego di lavoratori forzati nelle loro filiali nel Reich.

Per quel che riguarda il transito ferroviario, il volume di Forster pare mettere definitivamente fine alle ipotesi avanzate di recente sul transito di deportati diretti nei campi di concentramento tedeschi attraverso le trasversali ferroviarie elvetiche. L’autore non può escludere invece il passaggio di materiale bellico in vagoni piombati.

Andrea Tognina

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