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Davos, il villaggio e il mondo

La sicurezza è stato il tema dominante delle discussioni sul WEF 2001 Keystone Archive

Davos, una tranquilla cittadina fra le Alpi, meta ideale per gli incontri fra i leader globali. Così è stato, per una trentina d'anni. Poi la contestazione ha raggiunto anche il World Economic Forum.

Da quando nel 1971 il giovane economista Klaus Schwab creò un forum per i manager europei, la cittadina grigionese di Davos era divenuta luogo d’incontro privilegiato per la classe dirigente mondiale.

Spirit of Davos

Nel clima disteso ed informale di una tranquilla località di villeggiatura fra le montagne, i “global leaders” potevano discutere dello stato del mondo, lontani dallo stress quotidiano e da occhi importuni.

Era questo il segreto del World Economic Forum, quello “spirito di Davos” che aveva permesso all’incontro annuale di assumere un ruolo di primo piano nelle discussioni e nelle iniziative che hanno segnato la storia economica e politica degli ultimi trent’anni.

Global leaders, global riot

Il successo del Forum e la sua conseguente notorietà hanno però finito per ritorcersi contro la creatura del professor Schwab. Insieme alle grandi istituzioni internazionali, come l’OMC, la Banca mondiale e il G8, il WEF è diventato uno dei simboli contro cui si indirizzano le proteste del movimento anti-globalizzazione.

Anche nella quiete delle vallate alpine grigionesi, i global leaders sono stati raggiunti dalla global riot, la rivolta globale del cosiddetto “popolo di Seattle”. Nel 2000 alcune migliaia di persone hanno manifestato a Davos, nonostante i divieti. E nel 2001, la cittadina è stata trasformata in una sorta di fortezza, per timore di proteste violente.

Sicurezza e democrazia

Poliziotti armati e filo spinato: è questa l’immagine dominante del World Economic Forum 2001. L’imponente dispositivo di sicurezza, costato attorno ai 10 milioni di franchi, e il dibattito sulla sua legittimità hanno finito per relegare in secondo piano il programma vero e proprio del Forum.

Così tra il 25 e il 30 gennaio sono passati da Davos personaggi di primo piano della scena politica ed economica mondiale, da Yasser Arafat e Shimon Perez a Vojislav Kostunica, da James Wolfensohn, presidente della Banca mondiale, a Carla Del Ponte. Nel palazzo dei congressi si sono affrontati temi importanti per il futuro del mondo. Ma il WEF 2001 non sarà ricordato per questo.

Sarà invece ricordato per i controlli lungo le vie d’accesso a Davos, per gli agenti in tenuta antisommossa, per gli elicotteri che sorvolano la cittadina, per le persone fermate e respinte alla frontiera, per il lungo strascico di discussioni su diritto alla sicurezza e libertà di espressione.

Sarà ricordato per il 27 gennaio, giorno della temuta manifestazione non autorizzata a Davos. Nelle strade innevate si presentano solo poche centinaia di manifestanti, bardati più per il gran freddo che non per la battaglia. Ma le tensioni si scaricano altrove.

A Landquart circa 600 persone occupano per alcune ore i collegamenti ferroviari e autostradali tra Coira e Zurigo. La polizia fa uso di lacrimogeni e proiettili di gomma. In serata Zurigo vive scene da guerriglia urbana, con duri scontri tra manifestanti e polizia, automobili incendiate e vetrine infrante.

Se i contestatori vanno a Davos, Davos va a New York

E il 2001 sarà ricordato anche per il 6 novembre, giorno in cui i rappresentanti del WEF confermano il trasferimento temporaneo del forum a New York, nel 2002, nonostante le ripetute promesse di voler rimanere a Davos.

Il cambiamento di programma è presentato come gesto di solidarietà verso la metropoli duramente colpita dal terrorismo, ma è difficile immaginare che nella decisione non entrino considerazioni sulla sicurezza.

Fra l’appuntamento annuale a gennaio e l’annuncio del trasferimento negli USA, due avvenimenti di enorme portata contribuiscono a porre il tema della sicurezza in primo piano nell’agenda globale: gli scontri a Genova, in occasione del G8, e gli attentati dell’11 settembre a New York.

Spirit of Davos, part II

“Il governo cantonale è naturalmente deluso del trasferimento a New York”, ci dice Klaus Huber, consigliere di stato grigionese, “ma l’anno di pausa potrebbe anche rappresentare una buona occasione”.

Se nel 2001 lo spirito di Davos pareva in punto di morte, il canton Grigioni vorrebbe contribuire a rianimarlo. Il 28 novembre il parlamento cantonale ha approvato all’unanimità il rapporto del governo sul WEF. Un rapporto che punta molto sul dialogo.

“Vorremmo uno spazio in cui sia possibile lo scambio di opinioni fra i partecipanti al WEF e quelli che ne sono al di fuori”, continua Huber. “Trasformare Davos in un bunker per garantire la sicurezza è possibile, da un punto di vista puramente tecnico, ma non è ciò che vogliamo. Altrimenti Davos perde di attrattiva.”

Per i movimenti che criticano la globalizzazione, la prospettiva è diversa. Operando in un mondo globalizzato, non è tanto il luogo che conta. “Per noi il fatto che il WEF vada a New York non è né un vantaggio né una perdita”, dice Matthias Herfeldt, membro della Dichiarazione di Berna e coordinatore del controforum Public Eye on Davos.

Public Eye seguirà il WEF a New York. “Se poi il WEF non dovesse tornare in Svizzera, sarebbe più sensato se il coordinamento del controforum fosse assunta da un’altra ONG.”

Per un’associazione come la Dichiarazione di Berna, accompagnare criticamente il WEF può essere un’ottima occasione per approfittare della forte copertura mediatica. “L’insistenza sui temi della violenza e della sicurezza ha però delle ripercussioni negative anche per noi. Il rischio è di non parlare più dei temi importanti, degli effetti negativi della globalizzazione.”

E la prospettiva di un forum aperto, come quello proposto dal canton Grigioni? “La piattaforma di dialogo dovrebbe essere assolutamente neutrale”, sottolinea Herfeldt, “finché il WEF è finanziato dalle grandi aziende, non vediamo come si possa discutere sullo stesso piano.”

Andrea Tognina

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