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Esperti elvetici per identificare le vittime di Pinochet?

In presenza di molti cadaveri, come qui nell'obitorio di Pristina nell'estate del 1999, l'identificazione può porre parecchi problemi Keystone

La collaborazione della Svizzera, chiesta recentemente dalle autorità cilene, potrebbe addirittura essere assunta dal DVI team, il neo costituito corpo d'intervento per l'identificazione delle vittime in caso di catastrofe - sempre che si trovi una soluzione al problema del finanziamento per le missioni all'estero.

Di recente, il ministro della giustizia cilena, Gomez Urrutia, aveva chiesto l’intervento di esperti dell’Istituto di medicina legale di Ginevra per identificare le salme dei prigionieri politici scomparsi durante il regime dell’ex-dittatore Pinochet. Una richiesta fondata sul fatto che la Svizzera, e in particolare Ginevra, si era già distinta in passato in questo genere di identificazioni.

In effetti, membri dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Ginevra sono stati più volte chiamati all’estero, soprattutto nei paesi del Medio oriente, per determinare l’identità di cadaveri. Secondo Romano La Harpe, vice-direttore dell’Istituto di medicina legale di Ginevra, il fatto di interpellare degli esperti neutrali viene considerata come una garanzia, specialmente in paesi in cui non tutti si fidano ciecamente delle autorità locali. D’altro canto, anche criminalisti e medici legali provenienti da altri cantoni avevano già preso parte a missioni all’estero, come in Bosnia, in Kosovo e Timor est.

Ma laddove la loro presenza sarebbe stata più richiesta, dato l’alto numero di vittime svizzere – come nel caso del massacro di Luxor o dell’incidente aereo di Halifax – di esperti elvetici praticamente non c’erano. Per una semplice ragione: un intervento all’estero richiede un’organizzazione a livello nazionale, che in Svizzera fino a quel momento non esisteva. Infatti, anche per l’identificazione delle vittime di catastrofi vigono i sacrosanti principi del federalismo, secondo cui ogni cantone interviene nel modo e con i mezzi che più gli sembrano appropriati. Così, nel 1990, in occasione del disastro dell’Alitalia dello Stadelberg, furono le autorità zurighesi ad assicurare l’identificazione delle vittime, e non un corpo d’intervento nazionale.

Pronti per intervenire in Svizzera – e forse anche all’estero

Nel frattempo le cose stanno cambiando e anche la Svizzera, come ci ha confermato Stephan Gussmann, capo degli Uffici centrali di polizia criminale, può ora contare su un suo DVI team (Desaster Victim Identification Team). Vale a dire su una squadra di esperti messi a disposizione dai cantoni – 120 persone in tutto, fra poliziotti, medici legali, preparatori e dentisti – pronti a intervenire per l’identificazione delle vittime di catastrofi.

Per il momento, però, il DVI team è pronto a operare ufficialmente soltanto in caso di catastrofe in Svizzera. “Per quanto concerne eventuali interventi all’estero” spiega Christoph Markwalder, dell’Istituto di medicina legale di San Gallo, “rimane ancora da regolare la questione del finanziamento”. Se per gli interventi nazionali, le spese sono coperte dai cantoni, per le operazioni all’estero i costi dovrebbero essere assunti dalla confederazione. “Ma sebbene a questo livello si stia ancora lavorando all’allestimento dell’apposito ufficio di coordinamento, in caso di bisogno i soldi verrebbero comunque trovati” ritiene il dottor Markwalder.

L’identificazione di cadaveri – un’operazione da esperti

La necessità di intervenire immediatamente, appena succede una catastrofe, vale non soltanto per soccorrere eventuali sopravvissuti, ma anche per identificare i cadaveri. “In caso di incidenti all’estero, i parenti delle vittime vorrebbero subito poterne rimpatriare le salme” afferma Ullrich Zollinger, dell’Istituto di medicina legale di Berna, per giustificare la necessità di procedere immediatamente alle operazioni di identificazione. “Inoltre, potendo effettuare subito le analisi necessarie” aggiunge dal canto suo il dottor Markwalder, “si eviterebbe il rischio di scambiare le salme come avvenne dopo il massacro di Luxor, dove gli addetti dell’ambasciata dovettero procedere all’identificazione sulla sola base dei documenti delle vittime”.

Che degli errori possano facilmente capitare, allorquando l’identificazione non è eseguita da esperti, lo dimostra un caso avvenuto negli anni 80, allorché in una catastrofe aerea in Spagna perirono 120 persone: un’ottantina di sudamericani, gli altri europei. Chiamati per l’identificazione, i parenti dei sudamericani, certi di averli riconosciuti, fecero subito rimpatriare le salme dei loro cari. Ma al momento di identificare le altre vittime, i medici legali dovettero constatare che una quarantina di famiglie sudamericane si erano sbagliate e avevano trasportato in Sud America i corpi delle vittime europee.

Dalle impronte digitali all’analisi del DNA

Per l’identificazione dei cadaveri, oltre a eventuali documenti di identità, gli esperti hanno disposizione diversi metodi molto sicuri. Quello delle impronte digitali, per esempio, che però presuppone che la persona in questione sia schedata dalla polizia. C’è poi l’esame dei denti, basato sulle radiografie e sui dati clinici forniti dai dentisti delle vittime. “E soprattutto” spiega il dottor la Harpe “si ricorre sempre più spesso all’analisi del DNA. Per questo, basta che i medici legali dispongano di campioni di sangue dei famigliari delle vittime, da poter confrontare con il DNA dei cadaveri. Un sistema oltremodo sicuro, che permette anche di ricomporre i cadaveri sezionati in più parti”.

Ma anche l’analisi al DNA ha però i suoi limiti: nei cadaveri di lunga data che presentano un materiale biologico alterato, non si trova più il cosiddetto DNA nucleare, che permette l’identificazione sicura. “Per questo” sostiene il medico legale ginevrino “nel caso del Cile, si dovrebbe provare con le analisi sul DNA mitocondriale, che è presente anche in cadaveri vecchi di decenni. A condizione però di poter reperire del materiale biologico attendibile per effettuare il confronto”.

Fabio Mariani

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