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Ieri a Seattle, oggi a Davos e a Porto Alegre

Una sfilata dei partecipanti al Forum sociale mondiale, che si tiene a Porto Alegre, in Brasile Keystone

Da almeno tre anni a questa parte, quasi ogni riunione delle istituzioni economiche internazionali è accompagnata dalle manifestazioni del cosiddetto «popolo di Seattle». Una coalizione molto eterogenea, che sta sperimentando nuove forme di militanza e mobilitazione.

A dire il vero, a parlare di «popolo di Seattle» si cede ad una semplificazione mass-mediatica che non corrisponde del tutto alla realtà. Intanto perché la protesta contro le istituzioni ritenute responsabili delle scelte di politica economica globali ha cominciato a prendere contorni chiari piuttosto a Ginevra, nel maggio del 1998, in occasione dei 50 anni del Gatt/OMC.

Le manifestazioni a Seattle, per la Conferenza ministeriale dell’OMC, sono certo state più imponenti, e oltretutto hanno dato l’impressione ai contestatori di aver raggiunto una vittoria (il fallimento del round negoziale è in realtà da attribuire piuttosto alle resistenze di molti stati ad un ulteriore liberalizzazione). Ma sono venute più di un anno dopo, nel novembre-dicembre 1999, e, per chi avesse osservato con attenzione l’evoluzione dei movimenti sociali, neppure troppo a sorpresa.

Ma c’è anche un’altra ragione che induce a utilizzare con parsimonia, e con qualche precisazione, il termine «popolo di Seattle». A forza di ripeterlo e di accostarlo alle immagini di guerriglia urbana che si sono succedute nelle manifestazioni a Ginevra, Colonia (riunione del G8, giugno 1999), Seattle, Davos (gennaio 2000), Washington (Fondo monetario internazionale, aprile 2000), Genova (convegno sulle bio-tecnologie, maggio 2000), Bologna (vertice OCSE, giugno 2000), Praga (FMI e Banca mondiale, settembre 2000), Melbourne (incontro regionale del Forum economico, settembre 2000) e Nizza (vertice europeo, dicembre 2000), il termine ha finito per corrispondere allo stereotipo del giovane dimostrante con il cappuccio e i pantaloni militari.

In realtà il movimento è assai più eterogeneo di quanto possa apparire dalle immagini televisive: vi fanno parte organizzazioni non governative, sindacati, ecologisti, agricoltori, molti settori della sinistra, gruppi di ispirazione cristiana, anarchici, autonomi, ma in parte anche ambienti collocabili piuttosto a destra nello spettro politico.

E non si può parlare di una propensione generalizzata all’azione violenta. Semmai si può dubitare di un rapporto ambiguo con la violenza, legato alla consapevolezza che, senza gli scontri, di Seattle e delle altre manifestazioni non si parlerebbe più da un pezzo. Ma è indubbio che da parte della maggioranza delle componenti della protesta, la violenza sia condannata esplicitamente

Ed è difficile ridurre il movimento anche ad un atteggiamento di condanna pura e semplice della globalizzazione: al suo interno, a posizioni che rifiutano completamente la liberalizzazione dei mercati, si affiancano approcci che chiedono più semplicemente correttivi sociali ed ecologici ad un’evoluzione ritenuta tutto sommato ineluttabile. Del resto, questa eterogeneità è riconosciuta anche dai suoi esponenti ed è spesso percepita come valore più che come ostacolo. La volontà di sottolineare le affinità più delle differenze – che rimangono grandi – è forte.

Se vi è un elemento unificante del «popolo di Seattle», questo è piuttosto – ed è solo apparentemente un paradosso – il fatto che è esso stesso figlio della globalizzazione. Internet ha permesso di coordinare la mobilitazione di gruppi distanti per provenienza e cultura, di aprire discussioni di portata mondiale, di contrapporsi ai fautori di una globalizzazione senza freni sul loro stesso piano, quello del villaggio globale, reale e virtuale. I militanti che criticano la globalizzazione hanno dato prova in questo senso di saper sfruttare con grande abilità le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e di conoscere a menadito le regole della visibilità nella società dell’informazione.

Alla lunga però, l’eterogeneità potrebbe diventare un ostacolo, dal momento che al ciclo di proteste, in cui è relativamente facile individuare l’avversario simbolico comune, dovrà succedere una fase più costruttiva, di progettualità politica. Al minimo denominatore comune dell’opposizione alla globalizzazione così come si presenta ora, si dovrà sostituire una riflessione più complessa sullo sviluppo economico e sociale del mondo. Qui le difficoltà a tenere insieme le varie anime del «popolo di Seattle» potrebbero diventare ben maggiori.

Tuttavia, tentativi in questa direzione sono già in corso. Alcuni tratti di una cultura comune sono riconoscibili – basti pensare al successo editoriale di un libro come «WTO-Whose Trade Organization?» edito da Public Citizen, l’organizzazione del candidato verde alla presidenza USA Ralph Nader. E l’iniziativa di lanciare il progetto del Forum sociale mondiale a Porto Alegre, in alternativa a Davos ma senza rifiutare del tutto il dialogo, potrebbe rappresentare un passo importante per la creazione di una società civile globale «dal basso», in grado di trattare alla pari con i «global leaders» davosiani.

Andrea Tognina

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