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L’Egitto e la caccia al reporter

Pestaggio di un giornalista al Cairo, 3 febbraio 2011. Reuters

Che cosa sta succedendo in Egitto, al Cairo? Giornalisti, operatori TV e fotografi vengono minacciati, fermati, arrestati e picchiati. Sono il megafono della piazza che il regime di Mubarak vuole spegnere. La testimonianza di Gianluca Grossi, reporter svizzero.

Questo contenuto è stato pubblicato il 10 febbraio 2011 - 12:29
Gianluca Grossi, swissinfo.ch

Avevo fatto il check-in all’Hilton Hotel del Cairo, soddisfatto per avere ottenuto un prezzo inferiore alla tariffa che l’albergo offriva ai giornalisti e per la posizione vicinissima a piazza Tahrir.

Ero entrato da poco in camera e stavo sistemando le mie cose, quando sento bussare alla porta. «Grane», mi sono subito detto, perché chi bussa così, come volesse buttar giù la porta, solitamente porta grane.

Mi trovo davanti un signore che si presenta come il responsabile della sicurezza dell’Hilton e un ufficiale dell’esercito egiziano. «Lei stava filmando dal balcone – mi spiega il responsabile della sicurezza. È stato visto e ora l’ufficiale vuole controllare le immagini che lei ha registrato».

Niente di meno vero, non avevo ancora fatto in tempo a fare nulla. Avrei filmato successivamente, durante gli scontri, che avvenivano proprio davanti ai miei occhi, ma avrei preso le precauzioni del caso per farmi notare il meno possibile.

L’ufficiale avrebbe dovuto guardarsi ore e ore di immagini per verificare davvero: non avevo scelta e, seppure contro voglia, ho messo la telecamera in PLAY. Il militare si è accontentato di visionare soltanto alcune sequenze. Dopo aver fatto un giro nella stanza e aver controllato il mio materiale tecnico, essere uscito sul balcone e aver fatto una faccia severa, l’ufficiale se ne è andato.

È stata, questa, la prima manovra intimidatoria da parte dell’establishment egiziano nei miei confronti. A me come ad altri colleghi giornalisti, operatori TV e fotografi ne sarebbero capitate altre, molte altre. In particolare il giovedì 3 febbraio.

Una caccia organizzata e violenta

La cronaca le ha ampiamente riportate: ci sono stati attacchi verbali, ma soprattutto fisici, anche molto gravi, fermi, arresti, pestaggi. Erano stati organizzati posti di blocco attorno all’Hotel Hilton e in città. C’erano dei civili che ti fermavano, non lo dicevano ma tutti abbiamo concluso che si trattava di sostenitori del presidente Mubarak. Questi civili, quando scoprivano che eri un giornalista, diventavano molto aggressivi. Quando la situazione si faceva molto tesa, l’esercito (se era nelle vicinanze) interveniva e prendeva in consegna il giornalista, sottraendolo alla violenza.

I militari ti interrogavano e, se lo ritenevano necessario, ti arrestavano, oppure ti lasciavano andare, magari dandoti un consiglio: «Non si faccia fermare un’altra volta, altrimenti l’ammazzano». Grazie.

Che cosa sta succedendo in Egitto, al Cairo? Gli episodi di intimidazione nei confronti dei giornalisti non sono certo nulla di nuovo in scenari di guerra o di particolare tensione politica e sociale. Tuttavia, la caccia al reporter scatenatasi al Cairo ha una sua specifica particolarità: è organizzata ed è molto violenta.

I giornalisti ne sono rimasti sorpresi: per alcuni giorni è stato possibile spostarsi al Cairo e sugli altri scenari della protesta anti Mubarak come se tutto questo avvenisse in una democrazia. Raramente si veniva fermati e quando succedeva era soprattutto di notte, ai posti di blocco organizzati dagli abitanti dei quartieri minacciati dai saccheggiatori.

Il regime, tuttavia, c’era ancora. Aveva fatto un passo indietro, provvisorio, e stava a guardare. La scena era occupata dai manifestanti che chiedevano diritti individuali e democrazia e che non temevano di dirlo alle telecamere di tutto il mondo. Era un po’ come se la rivoluzione fosse non soltanto in corso, ma avesse ormai raggiunto i suoi obiettivi. Era come se piazza Tahrir contenesse tutto l’Egitto.

Giornalisti=spie

Sbagliato. Il regime ha sferrato il suo colpo di coda. I giornalisti sono stati attaccati per tre motivi, credo.

Il primo: per il timore che fra di essi potessero nascondersi agenti dei servizi segreti di altri paesi, soprattutto vicini (Israele). Il regime ha fatto circolare un’equazione molto semplice fra i suoi sostenitori: giornalisti = spie. Vanno, quindi, colpiti, rallentati, circondati e messi sotto chiave.

Il secondo motivo: durante i giorni più caldi della protesta, l’Egitto ha conosciuto il black-out delle comunicazioni, oscurato internet, bloccati i cellulari e gli sms. La stampa, quella estera, era il solo mezzo di comunicazione che funzionasse: portava, agli egiziani e al resto del mondo, il diario di una protesta popolare che ha colto il regime di sorpresa. In piazza Tahrir sempre più slogan venivano scritti in inglese. C’era, fra i manifestanti, la consapevolezza che la rivoluzione doveva avvenire anche all’estero, nelle cancellerie internazionali.

Terzo e ultimo motivo: i giornalisti erano diventati il megafono attraverso il quale i manifestanti anti Mubarak urlavano al regime una frase inaudita e potentissima: «Non abbiamo più paura». È il superamento collettivo della paura, celebrato nel rito quotidiano di piazza Tahrir ad aver scosso il regime di Mubarak e innescato la reazione repressiva, proiettata anche sui giornalisti, ormai interpretati come alleati della rivolta.

I manifestanti, tuttavia, hanno ridicolizzato, sfidandolo e sopportandone individualmente le rappresaglie, l’apparato repressivo su cui l’Egitto è fondato. È questo il messaggio che da piazza Tahrir investe le società del Medio Oriente: superare la paura è un’azione di affrancamento individuale. Ciò rende sotto molti aspetti già compiuta la rivoluzione egiziana.

Gianluca Grossi

Nasce a Bellinzona il 1° marzo 1967.


Studia letteratura comparata all'Università di Zurigo, dove consegue il dottorato. Al termine degli studi inizia l'attività di giornalista alla Radio Televisione Svizzera (RSI).

Per il telegiornale realizza i primi servizi all'estero e nel 2000 segue la seconda intifada palestinese.

Nel 2002 diventa giornalista indipendente e si trasferisce in Medio Oriente. Oltre che per le tre reti RSI, effettua servizi e documentari per altre emittenti europee, quali ad esempio la BBC.

Dirige la Weast Productions, agenzia di produzione televisiva da lui fondata e specializzata in servizi sul Medio Oriente.

Nel 2009 è stato designato giornalista svizzero dell'anno per la lingua italiana.

Attualmente vive a Beirut.

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