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Effetto domino nel mondo arabo?

Donne yemenite manifestano a Sanaa contro il regime di Ali Abdullah Saleh. Keystone

Mentre in Egitto la situazione sta peggiorando, i leader dei paesi arabi stanno facendo il possibile per offrire concessioni al fine di limitare la diffusione delle rivolte anche nei loro paesi. Intervista all'esperto del Medio Oriente Hasni Abidi.

La situazione al Cairo è tuttora tesa. Un giorno dopo i violenti scontri in cui si sono affrontati sostenitori e oppositori del presidente Hosni Mubarak, a inizio pomeriggio si sono di nuovo sentite raffiche da armi da fuoco nel centro città.

In base ai dati più recenti del ministero egiziano della salute, tra mercoledì e giovedì ci sono stati almeno 7 morti e oltre 860 feriti. Mercoledì è stato il giorno peggiore delle manifestazioni iniziate nove giorni fa.

La comunità internazionale, dal canto suo, ha lanciato un appello alla calma e ha chiesto alle parti di raggiungere un accordo. I primi sviluppi in tale senso sono le scuse del nuovo primo ministro,  Ahmed Chafic, per gli attacchi violenti di qualche ora prima.

Tuttavia, la posizione del governo rimane invariata. Martedì sera il presidente Mubarak ha dichiarato sul canale televisivo nazionale alla popolazione di non volersi candidare per le elezioni previste a settembre. I manifestanti dicono che non è abbastanza ed esigono le sue dimissione immediate.

Pertanto, il movimento dei Fratelli musulmani, prima forza d’opposizione egiziana, ha rifiutato i negoziati con il presidente Mubarak e il suo governo chiedendone le dimissioni.

D’altro canto, l’onda di scontento si sta diffondendo a macchia d’olio nel mondo arabo. Giovedì mattina diverse decine di migliaia di manifestanti dell’opposizione yemenita hanno marciato a Sanaa chiedendo riforme democratiche.

La diffusione delle proteste non sorprende il politologo Hasni Abidi, esperto del Medio Oriente e direttore del Centro per gli studi e la ricerca sul mondo arabo e il mediterraneo di Ginevra.

swissinfo.ch: Le rivolte e i disordini in Tunisia e in Egitto si diffonderanno in tutta la regione per l’effetto domino?

Hasni Abidi: Altri paesi sono già stati contagiati. Si tratta per lo più di un fenomeno di imitazione.

Questa mattina [mercoledì], il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh ha affermato che non estenderà il suo mandato presidenziale dopo il termine del 2013 e che suo figlio non si candiderà alle elezioni.

In Giordania, il Re Abdullah ha eletto un nuovo primo ministro martedì, sostituendo l’attuale in carica solo da un mese.

E in Algeria, Marocco e Libia le autorità hanno diminuito i prezzi dei beni di prima necessità.

Non assistiamo a un vero e proprio effetto domino, tuttavia i leader dei paesi arabi si stanno lasciando prendere dal panico. Reagiscono facendo concessioni e preparando la loro partenza. Sono molto preoccupati e, in ogni caso, non vogliono dover lasciare il paese come l’ex presidente tunisino Zine el-Abidine Ben Ali [che è stato rovesciato dai manifestanti il mese scorso e che è dovuto fuggire in Arabia Saudita].

swissinfo.ch: Quali sono le conseguenze di questi eventi per i governi europei e gli USA?

H.A.: Penso che gli Stati Uniti e i paesi europei debbano rivedere le loro politiche estere e cercare nuovi alleati all’infuori dalle cerchie politiche attuali che non sono né affidabili né durature.

Non è una cosa da poco perché i governi europei e gli USA hanno sempre avuto a che fare con i regimi locali fin dalla Seconda Guerra mondiale.

swissinfo.ch: Come giudica gli eventi del dopo Ben Ali in Tunisia? Si può parlare di una transizione democratica efficace?

H.A.: È molto difficile immaginarsi una transizione democratica efficace in Tunisia in questo momento. Senza dubbio, possiamo parlare di una transizione politica, ma non ancora di una democratica. Questa dipenderà da una nuova costituzione, elezioni legislative e presidenziali. Solo a questo punto potremo veramente esprimere un parere sull’esito della transizione democratica.

Si può sicuramente parlare di un cambiamento da un regime autocratico e dittatoriale a un sistema più aperto che permette a tutti i partecipanti politici di esprimere il loro parere. Sono state annunciate nuove leggi elettorali, e questo è senza dubbio un segno positivo per la Tunisia.

swissinfo.ch: Ci sono dei paralleli tra la Tunisia e l’Egitto?

H.A.: I due paesi hanno gli stessi sistemi politici da oltre 25 anni. Entrambi i regimi si rinnovavano principalmente tramite il nepotismo.

Entrambi soffrivano di un pessimo governo che ha portato a condizioni economiche e sociali precarie. Le dirette conseguenze sono state disoccupazione, aumento della corruzione, mancanza di prospettive e speranze. Questi fattori hanno causato un grande scontento tra la popolazione. È quindi bastata una scintilla per fare scoppiare le rivolte e per far scendere i manifestanti in strada.

Il governo tunisino non è riuscito a resistere a lungo perché l’esercito non ha sostenuto il regime e le proteste hanno coinvolto tutta la popolazione. Non c’erano diversi schieramenti politici e per questo non ci sono rischi di divisioni tra i manifestanti.
 
In Egitto però la situazione è diversa. Il sistema è molto più forte e stabile, anche se Mubarak è assai criticato. L’esercito non abbandonerà Mubarak. Tutti questi fattori non sono molto positivi per la transizione politica. Il regime cercherà di resistere più a lungo, soprattutto perché in Egitto vi sono dei forti legami tra l’esercito e il mondo politico ed economico.

swissinfo.ch: Come giudica la situazione attuale in Egitto?

H.A.: Al momento ci sono due aspetti da sottolineare. I manifestanti contro il governo sono determinati e chiedono le dimissioni immediate di Mubarak. In dieci giorni hanno ottenuto delle concessioni impensabili nei 30 ultimi anni.

In secondo luogo, l’esercito vuole mostrare che è lui a decidere quando e come Mubarak lascerà il potere. Ma si può già parlare della fine dell’era Mubarak. Dalla nomina del vice presidente Omar Suleiman e del ministro dell’aviazione Ahmad Shafiq quale nuovo primo ministro c’è infatti stato uno spostamento dell’esercito verso le sfere politiche.

17 gennaio: scocca la prima scintilla della rivolta. Al Cairo un uomo si dà fuoco, sulla scia di quanto accaduto in Tunisia e il movimento d’opposizione 6 aprile indice la giornata della collera.
 
25 gennaio: “giornata della collera”. Migliaia di manifestanti scendono in piazza al Cairo, a Suez e Alessandria per chiedere la fine del regime e condizioni di vita migliori. Le proteste degenerano in violenti scontri. Quattro i morti.
 
27 gennaio: la rivolta dilaga in tutto l’Egitto. Rientra in patria l’ex direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica e premio Nobel per la pace, Mohammed el Baradei, leader di uno dei movimenti di opposizione.
 
28 gennaio: seconda “giornata della collera” per il venerdì di preghiera: cortei anti-Mubarak. Al Cairo i manifestanti appiccano il fuoco al quartier generale del partito governativo, danno l’assalto ad alcuni ministeri, e alla sede della tv di Stato. A Suez gli insorti si impadroniscono del governatorato.
 
Il presidente Hosni Mubarak chiede l’intervento dell’esercito e proclama il coprifuoco dalle 18.00 alle 7.00 del mattino.
 
29 gennaio: la protesta non si ferma, mentre è varato un nuovo governo. Mubarak nomina come vice Omar Suleiman, potentissimo fedele capo dei servizi segreti. La manovra scontenta i manifestanti e tutta l’opposizione.

30 gennaio: per il terzo giorno consecutivo i manifestanti sfidano il coprifuoco. In piazza Tahrir al Cairo, diventata simbolo della protesta, si presenta Mohamed El Baradei, che annuncia di aver ricevuto il mandato dalle opposizioni di avviare un governo di salute pubblica. Con i manifestanti ci sono anche religiosi di Al Azhar, centro sunnita prestigioso e soprattutto molto vicino al governo.
 
31 gennaio: centinaia di migliaia di dimostranti sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Hosni Mubarak.

Il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) è profondamente preoccupato per gli atti violenti perpetrati contro la popolazione egiziana. Fa appello alle autorità egiziane a rispettare i diritti fondamentali del popolo egiziano, in particolare per quanto riguarda la libertà d’espressione, il diritto di riunione e di manifestazioni pacifiche. Il DFAE condanna gli atti di violenza e chiama al ritegno. Considera necessarie delle misure concrete tempestive per rispondere alle rivendicazioni legittime degli egiziazi che chiedono più democrazia e libertà.

 

(traduzione dal francese della presa di posizione del DFAE)

(traduzione e adattamento, Michela Montalbetti)

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