Uranio impoverito: rischi limitati per gli svizzeri impiegati in Kosovo

Nessun rapporto causale certo tra malattie ed impiego di munizioni all'uranio impoverito. Il rischio sembra comunque minimo per i soldati ed i civili svizzeri impegnati in Kosovo e Bosnia. Una conferenza stampa a Berna illustra la posizione svizzera
Gli esperti svizzeri inviati a due riprese l’anno scorso in Kosovo rilevano che, al di fuori delle zone conosciute che hanno subito bombardamenti, il rischio per la salute è “trascurabilmente minimo”. A dirlo, in una conferenza stampa tenuta a Berna, è uno specialista del laboratorio AC di Spiez, Ernst Schmid, che ha preso parte alla missione di verifica svolta in dicembre dall’UNEP, l’organizzazione dell’ONU per l’ambiente. L’esame dei dati raccolti è ancora in corso e i risultati verranno pubblicati in marzo.
Schmid ha spiegato che il pericolo di radiazioni esiste soltanto in caso di inalazione delle polveri sollevate nell’esplosione di obiettivi colpiti con munizioni all’uranio impoverito. Pertanto, tale rischio è “estremamente basso”, sia per i militari, sia per la popolazione locale e per il personale civile delle organizzazioni umanitarie, se si tengono lontani da tali obiettivi bombardati, data la dispersione dell’aerosol (la nube di polvere) nell’atmosfera.
L’uranio impoverito è, d’altra parte, meno radioattivo dell’uranio naturale. Un certo grado di pericolo rimane quindi, ha aggiunto Schmid, soltanto dopo un lungo contatto con resti di munizioni o di bombe o con rottami di veicoli corazzati distrutti. In ogni caso, simili armi non vengono più impiegate in Kosovo e, nella zona in cui opera lo Swisscoy (il contingente militare svizzero), non sono neppure state usate in passato.
Alla conferenza stampa hanno partecipato anche il capo di stato maggiore generale dell’esercito, Hans-Ulrich Scherrer, il capo del Gruppo della sanità dello stato maggiore, Peter Eichenberger, e Toni Frisch della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) del Dipartimento degli esteri.
Eichenberger ha detto che finora non si è verificato nessun caso di malattia tra i militari svizzeri che possa essere posto in rapporto con l’uranio impoverito. Ma non bisogna farsi illusioni, ha aggiunto: conosciamo soltanto la situazione al momento. I soldati svizzeri, che attualmente sono circa 900 tra Bosnia e Kosovo, al ritorno dalla missione vengono comunque sottoposti a controllo medico e, se lo desiderano, possono beneficiare di un controllo più approfondito.
Toni Frisch, capo del Corpo svizzero di aiuto in caso di catastrofe, ha sottolineato come anche la popolazione civile ed il personale umanitario sono coinvolti nel problema. La DSC ha attualmente in Kosovo circa 250 persone, a cui bisogna aggiungere altri 150 inviati come osservatori. Anche tra queste persone non è stato finora riscontrato alcun caso di malattia da porsi in correlazione con l’uranio impoverito.
Il capo di stato maggiore generale, Hans-Ulrich Scherrer, ha da parte sua sottolineato che il problema, proprio perché concerne non soltanto i militari ma anche la popolazione civile, “è una questione di addestramento e d’informazione”. Tutti gli svizzeri in Kosovo hanno ricevuto un’adeguata istruzione sul come comportarsi rispetto a resti di munizioni e rottami. D’altra parte, “dobbiamo constatare che il rapporto causale tra malattia e munizioni adoperate non è ancora chiaro. Ma noi vogliamo fare tutto il possibile affinché venga chiarito”. E a tale scopo, ha concluso Scherrer, il capo della Missione svizzera presso la NATO è stato incaricato d’intervenire per ottenere dal Segretariato Generale di tale alleanza tutte le informazioni che saranno date, su loro richiesta, ai paesi membri.
Silvano De Pietro

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