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Palestinesi e israeliani di nuovo faccia a faccia

1. settembre a Washington: Mahmoud Abbas, Benjamin Netanyahu e Hosni Mubarak ascoltano Barack Obama. Reuters

Dopo la ripresa dei colloqui diretti a Washington, il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas si sono incontrati in Egitto per discutere di un accordo di pace. L'analisi di due esperti su questo nuovo round negoziale.

I due leader si sono incontrati martedì a Sharm el Sheikh, in Egitto, in presenza della Segretaria di Stato americana Hillary Clinton. I colloqui diretti, rilanciati a inizio settembre a Washington dopo un’interruzione di oltre un anno e mezzo, dovrebbero proseguire mercoledì a Gerusalemme.

Le discussioni fra israeliani e palestinesi si stanno muovendo «nella giusta direzione», ha indicato l’emissario americano per il Medio Oriente George Mitchell. Sia Mahmoud Abbas che Benjamin Netanyahu, ha aggiunto Mitchell, concordano nell’affermare che i colloqui devono tener conto di tutte le questioni aperte.

Tra queste vi è la controversia sugli insediamenti ebraici. Lunedì, il Primo ministro israeliano ha ribadito di non voler prorogare lo stop alla costruzione di colonie in Cisgiordania, che scade il prossimo 26 settembre. Per i palestinesi, il congelamento degli insediamenti è però tra le condizioni indispensabili per giungere ad un accordo di pace.

Per individuare gli elementi centrali di questi colloqui, swissinfo.ch ha raccolto l’opinione di due profondi conoscitori del Medio Oriente: Robert Malley, direttore per il Medio Oriente all’International Crisis Group di Bruxelles ed ex consulente di Bill Clinton, e Pascal de Crousaz, ricercatore ginevrino autore di una tesi sul processo di pace in Medio Oriente.

swissinfo.ch: Il Primo ministro Netanyahu ha affermato di voler sorprendere i più scettici. Come interpretare le sue intenzioni?

Robert Malley: C’è una sola vera incognita in questo triangolo formato da Stati Uniti, OLP e Israele: la posizione attuale e futura del premier israeliano. Netanyahu è la persona che ha il ruolo più importante in questi negoziati, siccome è lui ad avere più carte in mano.

Benjamin Netanyahu proviene dalla destra, ma sembra dirigersi verso il centro, come d’altronde hanno fatto numerosi suoi predecessori. Forse nemmeno Netanyahu sa fin dove può arrivare, poiché la sua posizione dipende dalle circostanze, dalla sua valutazione della situazione politica e dalla sua aspirazione a diventare una figura storica. Molto dipenderà inoltre dalla sua percezione delle proprie capacità di convincere gli israeliani e i suoi amici politici che un accordo di pace – le cui grandi linee sono già note – potrebbe essere vantaggioso per Israele.

Pascal de Crousaz: L’ottimismo manifestato dal Primo ministro israeliano è pure una conseguenza di una strategia di comunicazione, che intende veicolare l’immagine di un pacificatore, in particolare presso le comunità ebraiche in Europa e negli Stati Uniti. Le posizioni radicali attribuite a Netanyahu e al suo governo – il più a destra della storia di Israele – cominciavano a suscitare una certa disaffezione in seno ad alcune comunità, come è capitato negli Stati Uniti con il movimento J Street.

Il suo mostrarsi ottimista deriva poi dalla sua convinzione di affrontare i negoziati da una posizione di forza, di fronte a un Mahmoud Abbas in posizione di debolezza.

swissinfo.ch: Qual è il peso degli Stati Uniti in questi negoziati?

Pascal de Crousaz: In generale, gli Stati Uniti dispongono di carte abbastanza potenti: possono minacciare i palestinesi di abbandonarli alla loro sorte. Di fronte a Israele possono invece far valere il loro sostegno, che si cifra in miliardi di dollari. Israele registra ad ogni modo un tasso di crescita economica ampiamente superiore a quello degli Stati Uniti e quindi, perlomeno a corto termine, non dipende dal supporto americano.

Washington potrebbe comunque minacciare Israele di interrompere il suo sostegno sul piano diplomatico, ad esempio astenendosi dal ricorrere al suo diritto di voto al Consiglio di sicurezza dell’ONU nelle risoluzioni che condannano lo Stato ebraico. Sono od ogni modo carte che a livello pratico sono molto difficili da giocare.

Robert Malley: L’idea che tutto dipenda dagli Stati Uniti è purtroppo un’illusione che ha fatto perdere a tutti parecchio tempo. Washington può dare il suo contributo e gli Stati Uniti dovranno essere, alla fine, mediatori e garanti dell’accordo. Tuttavia, come hanno dimostrato le precedenti iniziative di pace, gli Stati Uniti non potranno convincere o costringere le parti a fare qualcosa contro la loro volontà.

La risoluzione di questo conflitto è una convinzione che il presidente americano Obama coltiva dall’infanzia. Quando era candidato, ma anche in veste di presidente, ha rilasciato dichiarazioni che si spingevano molto lontano. Per il Primo ministro israeliano, tuttavia, la posizione americana non costituisce l’elemento essenziale. Ciò che conta è la sua valutazione della situazione regionale.

swissinfo.ch: In quale modo le ambizioni regionali dell’Iran pesano sui negoziati tra israeliani e palestinesi?

Pascal de Crousaz: Tra i dirigenti negli Stati Uniti, nell’Unione europea e nei paesi arabi pro occidentali, così come in Israele, c’è una convergenza di visioni e interessi obiettivi per tentare di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese, in modo da contenere l’Iran.

Robert Malley: C’è un’idea diffusa secondo cui esiste un’alleanza obiettiva di paesi arabi, dell’Europa e di Israele per contenere l’Iran. Bisogna però innanzitutto distinguere i governi dal popolo. Queste visioni non sono di sicuro condivise dall’opinione pubblica della maggior parte dei paesi arabi.

Inoltre, non so fino a che punto ciò spinga i paesi arabi ad avanzare in modo deciso sulla via della pace. Per questi Stati, la minaccia iraniana è più politica che militare. Se si dovessero trovare nella posizione di essere accusati di spingersi troppo in là con le concessioni ad Israele, si troverebbero vittime di una campagna mediatica, politica e ideologica dell’Iran e dei suoi alleati.

Stando a un sondaggio pubblicato martedì dal quotidiano Yédiot Aharonot, la maggior parte degli israeliani (51%) auspica una ripresa della costruzione delle colonie ebraiche in Cisgiordania.

Il 39% è favorevole al prolungamento della moratoria sulle colonie, mentre il restante 10% non ha un’opinione in merito.

Il 56% degli intervistati dubita inoltre delle intenzioni di Netanyahu di concludere un accordo di pace con i palestinesi: secondo loro, il Premier ha accettato di partecipare agli attuali colloqui a causa delle pressioni americane.

Il 71% degli israeliani interrogati è poi convinto che i colloqui diretti rilanciati a inizio settembre non condurranno ad un accordo di pace.

La Svizzera, ha comunicato il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE), «saluta la ripresa dei colloqui diretti tra Israele e i Palestinesi e spera che condurranno a negoziati e a risultati concreti».

La Svizzera continua inoltre a sostenere l’Iniziativa di Ginevra, la quale rappresenta al momento uno dei rari modelli di piano di pace globale che potrebbero portare a una soluzione del conflitto, aggiunge il DFAE.

Lanciata dalla Svizzera nel 2003, l’Iniziativa di Ginevra vuole essere uno strumento per chi deve prendere decisioni politiche nella regione e in seno alla comunità internazionale.

Il testo, redatto da politici israeliani e palestinesi, affronta nel dettaglio le questioni più delicate, quali lo statuto di Gerusalemme, la sorte dei rifugiati, il tracciato delle frontiere o la forma di una presenza internazionale.

Sostenuta da alcune personalità di spicco, tra cui l’ex presidente americano Jimmy Carter e l’ex generale Colin Powell, l’iniziativa non fa però l’unanimità, né tra gli israeliani né tra i palestinesi.

Traduzione e adattamento di Luigi Jorio

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