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Gli archivi relativi all’apartheid rimangono bloccati

«Viva Mandela!». A Pretoria come altrove, un paese intero rende omaggio al suo leader scomparso. Reuters

A quasi 25 anni dalla fine dell’apartheid, la Svizzera mantiene ancora un embargo parziale sugli archivi delle sue relazioni con Pretoria. Una restrizione che il governo elvetico ha ribadito una settimana prima della morte di Nelson Mandela, in risposta a un'interpellanza parlamentare.

«È una vergogna! Censurare la verità è ignobile e antidemocratico». Il senatore socialista Paul Rechsteiner non usa mezzi termini. Il 27 novembre 2013 ha chiesto al Consiglio federale (governo) di revocare l’embargo su parte dei documenti relativi al Sudafrica. Un nuovo tentativo che si aggiunge a una lista già lunga. E la risposta dell’esecutivo è la stessa da dieci anni.

All’origine della vicenda c’è una denuncia collettiva contro numerose banche, tra cui UBS e Credit Suisse, sporta il 19 giugno 2002 dall’avvocato newyorchese Ed Fagan (che in precedenza si era occupato dei fondi ebraici in giacenza) a nome delle vittime dell’apartheid. Secondo il legale, le banche hanno continuato a fare affari con il Sudafrica anche dopo l’imposizione di sanzioni internazionali nel 1985. La denuncia è stata in seguito estesa ad altre aziende elvetiche.

Il 16 aprile 2003, il Consiglio federale ha deciso di limitare temporaneamente l’accesso agli archivi. Mentre il normale termine di prescrizione è di 30 anni, tutto quanto riguarda le esportazioni di capitali e merci verso il Sudafrica è sottoposto a embargo dal 1° gennaio 1960.

La motivazione: se una società svizzera è coinvolta in una causa legale negli Stati Uniti, non dev’essere svantaggiata rispetto ad altre a causa della prassi liberale della Svizzera per quanto riguarda la consultazione di documenti dell’Archivio federale. È una questione di parità di trattamento. E benché non ci siano più ditte elvetiche direttamente interessate da una denuncia collettiva negli Stati Uniti dal 2009, è stata questa la spiegazione ribadita dalla ministra delle finanze Eveline Widmer-Schlumpf nella risposta a Paul Rechsteiner lo scorso 27 novembre.

Jacqueline Fehr, deputata socialista

Penso che con la morte di Nelson Mandela la situazione sia cambiata. È il momento giusto per agire siccome c’è una forte pressione sul Consiglio federale.

La verità

«Questa posizione viene dagli ex consiglieri federali Villiger e Merz. È incomprensibile che Eveline Widmer-Schlumpf la difenda ancora», reagisce Paul Rechsteiner. «Nelle sue condoglianze per la morte di Mandela, il Consiglio federale loda la sua abilità nella riconciliazione. Ma alla base di questa riconciliazione c’è stata la Commissione della verità. La verità è la condizione per la riconciliazione».

Jacqueline Fehr, sua collega di partito, intende depositare una nuova interpellanza, questa volta alla camera bassa del parlamento. «Penso che con la morte di Nelson Mandela la situazione sia cambiata. È il momento giusto per agire siccome c’è una forte pressione sul Consiglio federale. Non potrà rispondere come ha fatto per gli interventi precedenti», ritiene la deputata.

Carlo Sommaruga, anch’egli parlamentare socialista, vedrebbe di buon occhio un intervento del parlamento affinché la legge sugli archivi venga modificata. Non si fa però illusioni. «Nel parlamento, come nel Consiglio federale, non c’è alcuna maggioranza per sbloccare la situazione. Siamo in una delle molteplici espressioni della sindrome del segreto bancario, ossia la Svizzera non si muove finché non c’è qualcuno che viene a darle un bel calcione».

Il deputato si spinge oltre e chiede una proposta d’indennizzo globale per le vittime dell’apartheid. «È sorprendente che dopo la vicenda dei fondi ebraici in giacenza nelle banche elvetiche, la Svizzera non abbia anticipato questo passo con il Sudafrica. In questo modo lascia una porta aperta all’insicurezza giuridica, poiché l’apartheid rappresenta un genocidio e dunque è imprescrittibile».

Rapporto incompleto

Le relazioni tra la Svizzera e il regime dell’apartheid sono già state al centro di un ampio studio, nel quadro del Programma nazionale di ricerca (PNR) 42+. Sfortunatamente per gli storici, l’accesso agli archivi è stato limitato quando erano al lavoro da nove mesi. Il risultato è un rapporto incompleto di 300 pagine, delle quali soltanto una cinquantina si concentrano sugli anni ’70, ’80 e ’90, ovvero il periodo più decisivo.

Oltre a queste restrizioni, i ricercatori sono stati confrontati con il “no” generalizzato delle società private. «Per la Commissione Bergier [Svizzera – Seconda guerra mondiale], il Consiglio federale aveva promulgato un decreto che obbligava tutti ad aprire i propri archivi e a revocare il segreto bancario e il segreto d’affari. È un caso unico nella storia svizzera e, ovviamente, per noi non si è ripetuto», osserva Sébastien Guex, uno degli storici del PNR 42+. Lo specialista della piazza finanziaria conosce bene il problema: mai una banca gli ha aperto i suoi archivi.

La sua collega Sandra Bott, che ha lavorato al PNR 42+ nell’ambito del suo dottorato, si ricorda di aver visto, pure lei, le società e le associazioni private allinearsi dal 2003 alle regole stabilite dal governo.

Thomas Pletscher, del comitato direttivo di economiesuisse, conferma l’adesione delle cerchie economiche alla prassi federale. «I documenti del Vorort [Unione svizzera del commercio e dell’industria, poi diventata economiesuisse] sono depositati negli Archivi di storia contemporanea del Politecnico federale di Zurigo. Valgono le stesse regole degli Archivi federali».

«Onestamente – prosegue Thomas Pletscher, che da 25 anni si occupa di relazioni con il Sudafrica – non credo che si trovino cose sorprendenti, per la semplice ragione che all’epoca non è avvenuto nulla di problematico con l’implicazione diretta o indiretta del Vorort». Anche Sébastien Guex, che ha accesso agli archivi del Vorort, rileva che da essi «si è potuto trarre ben poco».

Non rimangono dunque che gli archivi delle società o delle associazioni di categoria, come quelle dei banchieri. Lo storico potrebbe mettere le mani su dei tesori? Thomas Pletscher non ne è affatto convinto. «Non va dimenticato che la legge obbliga le aziende a conservare unicamente i documenti contabili per dieci anni. Ciò non si applica alla corrispondenza, ai rapporti di viaggio, ai progetti o ad altri documenti. Inoltre le prassi variano da un’azienda all’altra». Senza contare che in caso di fusione, come quella che ha fatto nascere Novartis o la nuova UBS, le perdite di archivi sono frequenti…

Senza rancore

«Al momento della sua liberazione, Nelson Mandela ha ringraziato la Svizzera e la sua economia», rammenta Thomas Pletscher. «Il futuro presidente sudafricano aveva d’altronde scelto la Svizzera quale destinazione di uno dei suoi primi viaggi da uomo libero. Come disse a swissinfo.ch nel 2010 Franz Blankart, ex segretario di Stato al commercio esterno, «il fatto che la Svizzera non abbia partecipato alle sanzioni internazionali non lo aveva disturbato: [Mandela] aveva bisogno di un’economia che stesse in piedi e non di un’economia indebolita».

Un realismo che Jean Ziegler ha rammentato di recente in un’intervista alla SonntagsZeitung. «Non si è mai mostrato critico sul ruolo della Svizzera», ha affermato l’ex relatore dell’ONU per il diritto all’alimentazione. «La ragione è semplice: Mandela sapeva che sarebbe diventato capo di Stato e che avrebbe avuto forzatamente bisogno della piazza finanziaria svizzera. Non ha mai presentato delle richieste di indennizzo, ciò che gli è probabilmente costato, anche perché la Svizzera non si è mai scusata. Ma era un grand’uomo di Stato, che sapeva anche fare concessioni».

Nell’ottobre 2005 è stato pubblicato il rapporto finale del Programma nazionale di ricerca PNR 42+ intitolato “Relazioni economiche tra la Svizzera e il Sudafrica, 1945-1990”. Tra le conclusioni si legge che:

«Questa ricerca è profondamente segnata, nella sua forma e nel suo contenuto, dalle condizioni particolari in cui è stata condotta. L’accesso estremamente limitato che ci è stato accordato, sia in Svizzera sia in Sudafrica, per la consultazione di fonti di archivio dopo il 1970, in particolare quando si trattava di questioni finanziarie, spiega il carattere squilibrato della ricerca. Mentre circa 250 pagine sono dedicate al periodo che si estende dal 1945 alla fine degli anni 1960, solo una cinquantina di pagine concernono la fase successiva.

La Svizzera ha intrattenuto relazioni economiche costanti e strette con il Sudafrica durante tutto il periodo in cui il Partito nazionale ha istituzionalizzato e poi rafforzato il sistema dell’apartheid. I legami sono stati particolarmente forti nel settore delle esportazioni di capitali e della commercializzazione dell’oro sudafricano.

Le società straniere hanno disinvestito in Sudafrica nel corso degli anni 1980; le società elvetiche hanno fatto altrettanto, ma in misura sensibilmente minore. In altre parole, la fase durante la quale le sanzioni internazionali nei confronti del regime dell’apartheid sono state le più severe in assoluto, si è contraddistinta dal fatto che in termini relativi, l’importanza degli investimenti della Svizzera per Pretoria si è rafforzata.

Durante il periodo d’isolamento politico del regime sudafricano – che inizia negli anni 1960 e che culmina a metà anni 1980 con l’adozione dell’ONU di sanzioni economiche vincolanti – la posizione conciliatrice della Svizzera, che condanna moralmente l’apartheid ma rifiuta di associarsi alle sanzioni, consolida la fiducia dei dirigenti e degli ambienti economici sudafricani nei confronti dei loro partner svizzeri».

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