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Un marchio contro gli abusi?

Le condizioni di lavoro di molti degli operai cinesi che producono beni per i nostri consumi continuano ad essere tutt'altro che degne Keystone

Sempre più multinazionali sfoggiano marchi e slogan a conferma di produzioni e comportamenti rispettosi dei diritti dell'uomo e dell'ambiente.

Tuttavia in certi paesi gli abusi restano numerosi. Ad esempio in Cina, dove un enorme numero di società, anche svizzere, delocalizzano la loro produzione.

Si è recentemente tenuta a Shanghai la riunione dei membri dell’iniziativa internazionale Global Compact, un esempio di come i principali attori economici tentino di mostrarsi attenti ai diritti dei lavoratori e dell’ambiente nei loro processi produttivi.

L’appuntamento, che ha riunito più di 800 grandi nomi dell’economia e della politica, non poteva svolgersi in un luogo più simbolico: nel cuore di quella che è divenuta la “fabbrica del mondo”, tra i grattacieli del roboante boom economico cinese, nel quartiere di Pudong, dove sta sorgendo la Manhattan del XXI secolo.

Boom e problemi

Tutti ne parlano. Tutti vogliono esserci. Tutti vi producono o acquistano qualcosa.

La Cina, grazie al suo immenso mercato e alla sua infinita manodopera a basso costo, sta tornando al ruolo che per secoli le era spettato di diritto: al centro del mondo.

Ma dietro al fascino esercitato dalla crescita della nuova superpotenza c’è un amaro retro della medaglia.

“Le condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi sono spesso disumane”, riassume Andreas Missbach della Dichiarazione di Berna (DB). “In molti casi, gli elementari diritti dei lavoratori sono calpestati”.

A livello nazionale, le norme a protezione dei lavoratori esistono e sono simili a quelle dei paesi occidentali. “Ma in realtà, a livello locale, vengono sistematicamente ignorate”, aggiunge Missbach.

La carica dei consumatori

Considerata l’importanza degli scambi commerciali tra i due paesi, la questione riguarda anche i consumatori svizzeri.

In agosto, la Fondazione per la protezione dei consumatori (SKS) aveva organizzato una campagna di sensibilizzazione sui prodotti cinesi “a buon mercato ma fabbricati senza rispetto per i diritti umani”.

“Abbiamo chiesto alla gente di fare pressione sulle aziende elvetiche che dispongono di fornitori cinesi perché impongano loro di rispettare i diritti degli operai”, dice Jacqueline Bachmann, direttrice della SKS. “La nostra azione ha avuto una buona eco”.

Una percentuale crescente di consumatori sembra prestare attenzione a cosa si nasconde dietro ai prodotti che, in provenienza da tutto il mondo, giungono sugli scaffali dei negozi.

La corsa al marchio

Ed allora le aziende si adattano. Le iniziative (ad esempio la Clean Clothes Campaign) ed i marchi a garanzia di standard minimi si moltiplicano.

Oltre all’esempio di Global Compact, ne esistono molti altri. Ad esempio, la Business Social Compliance Initiative, nata nel 2002, che comprende 49 aziende internazionali (tra loro i grandi distributori svizzeri Migros, Coop, Vögele, Globus e PKZ).

Altri stanno per nascere: è il caso di Respect Inside lanciato da Robin Cornelius, padre della società tessile svizzera Switcher, compagnia all’avanguardia nell’applicazione del concetto di sviluppo sostenibile nella produzione.

La scelta sembra pagare anche dal punto di vista commerciale: a fine ottobre, Cornelius è stato premiato quale “imprenditore dell’anno” dalla società fiduciaria Ernst & Young.

Controlli indipendenti

“È bene che anche l’economia agisca”, rileva Andreas Missbach. “Ma poi vanno analizzati i contenuti di questi marchi: spesso si tratta soltanto di vaghi principi generali”.

Secondo Missbach, gli accordi spontanei devono avere obiettivi chiari e prevedere sanzioni per chi sgarra. La chiave sono però i controlli.

“Le grandi multinazionali hanno una rete di 10-15’000 fornitori. È impossibile vedere tutto. È perciò fondamentale che organizzazioni indipendenti possano effettuare controlli non annunciati nelle fabbriche. L’intero processo deve essere trasparente”.

“L’approccio politico e quello economico devono andare a braccetto”, sottolinea da parte sua Simon Ammann della sezione politica sui diritti umani presso il Dipartimento federale degli affari esteri. “Le norme sociali che si autoimpongono le aziende sono perciò molto importanti”.

“Siamo coscienti della relazione tra economia e diritti dell’uomo”, continua Ammann. “In settembre abbiamo ad esempio organizzato a Pechino un seminario sul tema al quale hanno partecipato rappresentanti del governo cinese e una quindicina di aziende svizzere e cinesi”.

È tuttavia chiaro che uno sviluppo sostenibile e rispettoso di tutti non può basarsi unicamente su iniziative economiche volontarie. Occorrono soluzioni politiche e strumenti legali coordinati e applicati su scala internazionale.

swissinfo, Marzio Pescia

La Cina è il 12° partner commerciale della Svizzera.
Le esportazioni svizzere sono cresciute da 415 milioni di franchi nel 1990 a 3 miliardi nel 2004.
Le importazioni dalla Cina sono salite da 412 milioni nel 1990 a 2,8 miliardi nel 2004.
300 aziende svizzere dispongono di filiali in Cina.
Molte altre società dispongono di partenariati in Cina o annoverano aziende cinesi tra i propri fornitori.

Il patto mondiale ONU Global Compact è stato lanciato al Forum di Davos nel 1999 dal segretario generale dell’ONU Kofi Annan.

Il suo obiettivo è di promuovere un minimo di regole morali per le grandi imprese perché la mondializzazione vada a beneficio di tutti.

Global Compact conta oggi circa 2’400 membri.

Partecipanti svizzeri: ABB, Adecco, Bischoff Textil AG, Christian Eschler AG, Credit Suisse, Cross Systems, Flexim, Hermann AG, Holcim, MSM Fininco AG, NES Ltd, Nestlé, Novartis, Petrolin Group, Serono, Supreme Food Service, Triumph, UBS, Unaxis, Wisekey SA, Worldspan International, XL Generation AG.

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