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L’avventura della realtà

Alberto Giacometti, Il cane, 1951 Keystone

L'opera e la figura di Alberto Giacometti continuano ad esercitare un enorme fascino, per il loro rigore e per la loro misteriosa vitalità. I disegni, i quadri, le sculture dell'artista bregagliotto testimoniano di una straordinaria ricerca artistica e umana. Proviamo ad addentrarci in questo mondo in compagnia dello storico dell'arte e filosofo Jean Soldini.

Professor Soldini, cominciamo da ciò che lo spettatore coglie immediatamente, nell’opera matura di Alberto Giacometti: la centralità della figura umana. Come inquadrarla rispetto a quanto egli ha fatto prima?

Giacometti, fin da quando comincia a disegnare, ha un rapporto estremamente intenso con ciò che vede. Un rapporto che ben presto, già prima dell’arrivo a Parigi nel 1922, diventa arduo. Il mondo esterno gli appare difficile da afferrare. Giacometti ha delle grandi capacità manuali, che dovrebbero facilitarlo. Ciò nonostante, non è così, perché fin dall’inizio si pone di fronte alla realtà in modo singolare.

Il disagio nei confronti della realtà esterna lo porta a rivolgersi sempre più verso l’inconscio, verso l’aggressività che emerge dal suo inconscio. Lo si vede nelle opere surrealiste.

All’interno della fase surrealista, tra 1930 e 1934, si creano a mio avviso le premesse per il ritorno alla realtà visibile. Perché? Sull’onda dell’attenzione per l’avventura, per il caso, per la vita con le sue sorprese – un’ attenzione che è fondamentale nel surrealismo – la presenza misteriosa delle cose comincia a riaffiorare. Alla fine del 1934 Giacometti rompe con il surrealismo e sceglie di tornare definitivamente alla realtà esterna.

Si riaggancia così a qualcosa che sin dall’inizio era presente in modo embrionale nei suoi interessi. Non si tratta di un ritorno alla tradizione. Dal 1937 al 1947 circa, Giacometti lavora sulla figura cercando di mettere in primo piano semplicemente ciò che vede, eliminando ogni a priori, ogni immagine precostituita.

Vedere diventa una vera e propria sfida. In questo senso Giacometti si richiama alla lezione di Cézanne, il quale sosteneva che bisogna rendere l’immagine di ciò che vediamo dimenticando tutto ciò che è apparso prima di noi. Quello con Cézanne non è tanto un rapporto di somiglianza formale, quanto di atteggiamento – testardo, ossessivo – nei confronti della realtà.

E questo atteggiamento Giacometti lo mantiene sino alla fine?

Sì. Cambiano solo i mezzi utilizzati dall’artista. Dal ’37 al ’47 ci sono le figure minuscole, dal ’47 al ’56 le sculture più note, filiformi. Successivamente le figure riacquistano volume. Ma sostanzialmente non cambia nulla nell’atteggiamento di fondo dell’artista: un vedere liberato dagli schemi che ci portiamo appresso. “Sono turbato da ciò che vedo”, dice Giacometti. Ma non è turbato da qualcosa di straordinario. Anzi, al contrario, lo è proprio da ciò che è più consueto: una mela, un bicchiere, sua moglie, suo fratello.

Per tornare alla domanda iniziale: Giacometti dipinge anche paesaggi, oggetti, tra cui la nota mela del 1937, ma la figura umana è preponderante nella sua opera. Perché?

Non separerei il suo interesse per la mela o per qualche altro oggetto, dall’attenzione per la figura umana. Il suo interesse è rivolto prima di tutto a ciò che esiste. Ciò che esiste e che gli appare, egli tenta di renderlo nel modo più fedele possibile, spogliandosi di tutti gli strumenti a cui potrebbe far ricorso. Evidentemente la figura umana è un esistente in cui la vita si manifesta in modo particolarmente forte. È particolarmente irrequieta, potremmo dire.

Giacometti è interessato al dramma di questa irrequietezza, di questa stupefacente concentrazione d’essere minacciata dalla morte. Non si richiama a una visione tradizionalmente umanista. Non è il dramma come condizione dell’uomo nella storia. In tal senso non sono d’accordo con lo scrittore Tahar Ben Jelloun quando scrive: “Si è intimiditi perché un uomo, lontano dal mondo, lontano da ogni valore mercantile, è riuscito ad esprimerci tutti, scavando il metallo e ricordandosi della tragedia umana, sia essa immediata – come quella che egli ha vissuto durante il nazismo – sia essa lontana e che esiste da quando l’uomo umilia l’uomo”.

A vent’anni, Giacometti è confrontato con la morte di un suo occasionale compagno di viaggio, l’olandese Pieter van Meurs. Che segno ha lasciato questa esperienza nell’opera di Giacometti?

L’esperienza è importantissima, perché in lui c’è un’enorme sete di vita e quindi la morte gli appare subito come qualcosa di estremamente inquietante. Ma Giacometti non si limita semplicemente ad esprimere la finitezza della condizione umana. Quel che fa è cercare di far passare la morte insieme alla vita nell’atto di scolpire o di dipingere.

Mi spiego meglio: quando scolpisce le sue figure filiformi, che cosa fa? Sacrifica la materia, dunque fa sì che quelle sculture passino vicinissime alla morte. Un atto necessario per riuscire a caricare veramente di vita la materia, per evitare il sovrappiù, la materia morta. Così ci ricorda anche la condizione che è tipica di ciò che esiste: il destino di non esistere più, prima o poi.

Le figure giacomettiane sono lì davanti a noi, s’impongono a noi come le cose s’impongono al nostro sguardo, ma sono anche sempre sul punto di sparire. Sono vive, quasi eterne nella loro durezza, ma nello stesso tempo sono minacciate dalla morte nella loro fragilità.

Giacometti esprime spesso la sua difficoltà a raggiungere ciò che vorrebbe. Come guarda allora alle sue opere “concluse”?

Il suo modo di guardare alle proprie opere è duplice: da una parte sa che, rispetto all’obiettivo altissimo che si è prefisso, ciò che raggiunge è poco. Nel contempo ha la consapevolezza del valore enorme delle sue opere.

Ma consideriamo un altro aspetto: se si pensa alla natura della sua sfida, cioè il semplice attenersi a ciò che si vede, questo comporta che la totalità della cosa appare per un istante, poi scompare. E allora si tratta di aspettare il momento del ritorno, il momento in cui l’oggetto riapparirà nella sua verità. Giacometti si esprime così: “Il suo volto tornerà presto, molto più giusto di prima”. Questo mostra quanto sia importante per lui il tempo.

Di solito l’attenzione è rivolta allo spazio, alla figura nello spazio. In realtà il tempo è un fattore decisivo nell’opera di Giacometti. L’oggetto passa e ripassa e bisogna essere in una condizione di attesa febbrile, in modo tale da fissare il momento in cui l’interezza dell’oggetto si ripresenterà, il momento in cui non sarà più possibile separare esterno e interno, apparenza ed essenza, in cui tutte queste categorie salteranno completamente, diventando inutilizzabili. Certo, basta un niente e sei a lato, devi ricominciare tutto.

Intervista a cura di Andrea Tognina

(Jean Soldini, laureato in storia dell’architettura e estetica, è autore del libro “Alberto Giacometti, la somiglianza introvabile”, edito da Jaka Book, Milano 1998)

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