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Hot Spots: l’arte senza frontiere degli anni ’50 e ’60

Nel secondo dopoguerra, il mondo dell'arte era dominato da due città: Parigi e New York. Ma anche altri centri erano attraversati da fermenti creativi d'avanguardia. La mostra «Hot Spots» al Kunsthaus di Zurigo punta i riflettori su Rio de Janeiro, Milano, Torino e Los Angeles.

Viene da pensare a Jacques Tati, entrando negli spazi della mostra «Hot Spots» al Kunsthaus di Zurigo, al suo «Playtime», geniale e scanzonata resa dei conti con gli spazi urbani degli anni Cinquanta.

Di quel film, la mostra ricorda il design, le forme, il piacere o l’ossessione per la geometria, che oggi appaiono segno di una sorta di classicismo moderno, ma che allora erano un nuovo mondo che stava sorgendo dopo gli sconquassi della guerra.

E ne ricorda anche alcune ingegnose trovate cinematografiche, come la scena del lavavetri che ribaltando una finestra su cui si specchia un autobus fa oscillare anche quest’ultimo, per lo stupore dei passeggeri.

Nella scena di «Playtime» come in varie opere della mostra, lo spazio bidimensionale – l’immagine racchiusa nella cornice della finestra o lo spazio tradizionale di un quadro – è la dimensione da superare, da lasciarsi alle spalle.

Oltre il quadro

«Fra le opere esposte nella mostra ci sono interessanti paralleli, che hanno a che fare con il tema dello spazio», osserva il curatore del Kunsthaus di Zurigo Tobia Bezzola. «Lo sforzo comune di questi artisti era di andare oltre il quadro, uno spazio che era ancora centrale, per esempio, nel lavoro di Jackson Pollock»

Il percorso dell’esposizione comincia da Rio de Janeiro, polo creativo di un Brasile in pieno fermento artistico, segnato dal «neoconcretismo» nelle arti visive, dall’architettura razionalista di Oskar Niemeyer, dalla «bossa nova» e dal «cinema novo».

Se l’architettura brasiliana di quegli anni è evocata nelle fotografie in bianco e nero di Marcel Gautherot, è in particolare l’interesse neoconcretista per la geometria e per la costruzione dello spazio che salta all’occhio, per esempio nei lavori di Hélio Oiticicas, di Lygia Clarks o di Amilcar de Castro.

Grande fermento intellettuale

Il confronto con la geometria si ritrova anche nella sezione italiana, dedicata alla scene artistiche di Milano e Torino. Al lavoro sullo spazio e sulla forma si aggiunge la sperimentazione con i materiali, che conduce alla cosiddetta «arte povera».«La sezione vuole mettere in rilievo il contributo importante di alcuni artisti italiani alle ricerche artistiche degli anni ’50 e ’60», spiega Luca Massimo Barbero, curatore della parte italiana della mostra.

«Per questo abbiamo preso le mosse da una delle figure più innovative del dopoguerra, Lucio Fontana. Insieme a Piero Manzoni, che appartiene già alla generazione successiva, sono alla base di un discorso di radicale rinnovamento artistico».

Ai lavori di Fontana e Manzoni, si affiancano quelli di Alighiero Boetti, Enrico Baj, Mario Merz, Gastone Novelli, Michelangelo Pistoletto e tanti altri. «La mostra dà la giusta misura di un momento di grande fermento intellettuale, un momento in cui si è consumata una tradizione e se n’è aperta un’altra», rileva Giorgio Griffa, uno degli artisti presenti nella mostra.

L’ultima frontiera

Il viaggio prosegue per Los Angeles, città del sogno hollywoodiano, metropoli a misura di automobile, capitale della cultura popolare globale, che è ad un tempo stimolo e sfida per gli artisti che la abitano.

Se da un lato si ritrovano sperimentazioni di gusto astratto e geometrico, per esempio nelle opere di Robert Irwin o Larry Bell, dall’altro si entra nell’ambito del confronto con i segni caratteristici della città, dal lavoro di Edward Ruscha sulle scritte pubblicitarie agli studi fotografici di Julius Shulman sull’architettura delle ville hollywoodiane.

La sezione colpisce soprattutto per la varietà degli approcci, per l’enorme apertura nei confronti di sperimentazioni individuali lontane da ogni possibile categorizzazione, che spesso preconizzano successive evoluzioni artistiche.

«Nella mostra a Zurigo si mettono a confronto realtà geografiche e artistiche che non si sono mai incontrate», nota Luca Massimo Barbero. «Il visitatore all’inizio capta le differenze, poi pian piano, anche grazie alle aperture trasversali dell’allestimento, coglie le assonanze. Ed è questo il bello».

swissinfo, Andrea Tognina, Zurigo

L’esposizione «Hot Spots. Rio de Janeiro / Milano – Torino / Los Angeles, dal 1956 al 1969» al Kunsthaus di Zurigo, aperta fino al 3 maggio 2009, è nata in collaborazione con il Moderna Museet di Stoccolma che negli scorsi anni ha ospitato un ciclo di esposizioni in tre parti separate dedicate alle quattro città, dal titolo «Time and Place».

La presentazione a Zurigo, una «metaesposizione» secondo le parole del curatore Tobia Bezzola, riunisce le tre esposizioni, sulla base dell’ipotesi che i tre «Hot Spots» siano collegati da corrispondenze personali, estetiche e legate al modo di produzione.

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