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Il lato oscuro del corpo… e della vita

La violenza, la malattia e la morte sono al centro di un'esposizione al museo della fotografia di Winterthur. Darkside II esplora la relazione intrinseca tra la fotografia e il lato più oscuro del corpo.

Non c’è dubbio: ci vuole una buona dose di coraggio, e tanta curiosità, per avventurarsi tra le cinque sale di Darkside II. Dopo un’esposizione sull’amore e la sessualità come forme di aggressione, il museo della fotografia di Winterthur si concentra quest’autunno sul lato più oscuro del corpo, con immagini disperate e disperanti, cariche di corpi sfigurati, mutilati, in declino o semplicemente inerti. Darkside II evoca, racconta, documenta le tragedie dell’esistenza con freddezza e rigore, ma soprattutto con molta autenticità.

Chi osa varcare la soglia del museo dovrà dar prova di sangue freddo, ma non resterà deluso. In un percorso a tema, che inizia con la rappresentazione di un corpo intatto e termina con la morte e i suoi strascichi, l’esposizione presenta oltre 100 opere tra fotografie e video, per chiudersi con una domanda retorica: «Cosa resterà di noi?». Accanto ad artisti di fama mondiale, del calibro di Robert Frank, Cindy Sherman e Philip Jones Griffiths, il pubblico potrà scoprire anche nomi meno noti come gli svizzeri Olaf Breuning e Thomas Hirschhorn.

Ciò che conta non è tanto chi ha scattato queste immagini, ma l’ombra che esse riflettono e il messaggio che trasmettono. Col tempo le fotografie rischiano di perdere la loro capacità di stupire, di sorprendere, continuiamo a guardarle ma senza vederle realmente perché fanno già parte della nostra memoria collettiva. Grazie a un’esposizione tematica, il museo di Winterthur riesce perfettamente nell’intento di restituire a queste opere la loro forza iniziale, spezzando così la catena della riproduzione.

Tanto sangue, ma non solo

Coraggiosa testimone dei segni lasciati dalla guerra, Sophie Ristelhueber ci presenta la schiena nuda di una donna, solcata da una cicatrice. La fotografia, scattata in un ospedale parigino su un corpo morto, è una specie di allegoria della guerra tra serbi e croati alla quale l’artista ha assistito durante un viaggio nell’ex Yugoslavia.

L’impatto della violenza è visibile anche nelle fotografie scattate in Vietnam da Philip Jones Griffiths e da Oliver Noonan o nella sequenza di ritratti dei prigionieri di Abu Graib. Più indiretto invece il messaggio del manifesto realizzato da Oliviero Toscani per la multinazionale Benetton, che mostra unicamente i vestiti di un soldato bosniaco ricoperti di sangue, lasciando all’osservatore il compito di immaginare cosa tutto ciò significhi.

Il corpo è l’immagine principale di ogni fotografia esposta, un involucro soggetto a forze imprevedibili e misteriose: coperto da cicatrici, fatto a pezzi, bruciato o semplicemente svuotato, mostra una parte dell’umanità che spesso rimane nascosta, dimenticata.

E ad essere dimenticati non sono soltanto gli orrori di guerre lontane, ma anche la malattia di chi ci sta vicino o il nostro stesso malessere. Lo dimostrano le fotografie scattate da Elisa González Miralles a una donna malata di Alzheimer o quella di Cindy Shermann che mostra una donna di mezza età in strenua lotta contro il passare degli anni.

Troppo brutale?

Darkside II solleva numerosi interrogativi sul legame intrinseco tra arte e violenza, tra fotografia e morte, e sulla necessità di esibire o occultare immagini talvolta sconcertanti. «Al pari delle reliquie religiose, ciò che la fotografia moderna documenta è in primo luogo la fede stessa dello spettatore nella loro autenticità», spiega lo storico tedesco Valentin Groebner a margine del simposio “Troppo brutale? Soltanto bello?”, organizzato dal Museo della fotografia di Winterthur.

Da tempo immemorabile la violenza è oggetto di rappresentazione. Ma in quale misura la fotografia può essere all’origine di nuova forma di violenza? Il soldato repubblicano colpito dai franchisti nella Spagna degli anni Trenta e ritratto da Robert Capa, la cui autenticità – a dire il vero – è stata più volte messa in dubbio, non pone forse la domanda sulla legittimità di questa sete di “voyeurismo” e delle sue incarnazioni?

«Le immagini di violenza occupano un posto speciale nel campo della fotografia più emozionale e emozionante», prosegue Valentin Groebner. «Lo spettatore è cosciente che ciò che sta guardando non è veramente un corpo maltrattato, ma soltanto un sottile strato di pigmenti di vetro o di carta. Ed è proprio per questo – e non ciò malgrado – che questo simulacro scatena emozione ed empatia, perché ci permette di prendere parte a qualcosa senza farlo davvero».

Per Urs Stahel, curatore dell’esposizione, la «violenza attira le immagini e le immagini attirano la violenza, ma ciò non toglie che questa rappresentazione dell’orrore possa perfino essere consolante». La ricerca della bellezza in una tragedia umana è in realtà una ricerca estrema, che ridesta in noi la speranza, continua Urs Stahel.

Darkside II ci ricorda infine che ogni fotografia è di per sé una forma di violenza per i nostri occhi, perché si impone al nostro sguardo con la forza di un uragano. «Le fotografie strazianti non perdono mai il potere di scioccare», scriveva l’intellettuale americana Susan Sontag.

«Ma quando si tratta di comprendere qualcosa non ci sono molto d’aiuto. Il racconto, la narrazione possono farci afferrare il significato. Le fotografie fanno qualcosa d’altro: Ci colpiscono e non ci lasciano più andare via». E in fondo è un po’ anche questo l’effetto di Darkside II: repulsione e fascino, indignazione e curiosità per un percorso in immagini che – in un vortice di emozioni contrastanti – mette tutti d’accordo su un unico punto, l’impossibilità di lasciarci indifferenti.

Stefania Summermatter, Winterthur, swissinfo.ch

Dopo una mostra sulla sessualità e il desiderio, il Museo della fotografia di Winterthur si concentra quest’autunno (dal 5 settembre al 15 novembre) sul lato più oscuro del corpo, con immagini disperate e disperanti, colme di corpi sfiguranti, mutilati o semplicemente in declino.

Un’esposizione che solleva interrogativi sul legame intrinseco tra arte e violenza, tra fotografia e morte, e sulla necessità di nascondere o di riportare alla luce figure scioccanti.

Il corpo è l’immagine principale di ogni fotografia esposta, un involucro soggetto a forze imprevedibili e misteriose, esso si copre di cicatrici, viene fatto a pezzi, brucia ed esplode. Ed ancora il corpo invecchia, si indurisce, si disintegra e si decompone sotto lo sguardo di artisti di fama internazionale.

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