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La proboscide dell’elefante bagna ancora il naso ai robot

Proboscide
La proboscide dell'elefante unisce potenza, agilità e delicatezza, una combinazione che affascina da tempo il mondo scientifico. Keystone

Un braccio meccanico ispirato alla proboscide dell'elefante? Non è ancora stato realizzato, ma ha dato vita a una collaborazione tra esperti di robotica italiani e biofisici svizzeri grazie al sostegno di un fondo per l'innovazione dell'Unione europea.

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Ginevra ha annunciato il mese scorso di aver studiato il funzionamento delle proboscidi degli elefanti per creare un braccio robotico ispirato a questo organo. La natura ha dotato i pachidermi di un’appendice flessibile, potente ed estremamente versatile. Uno strumento che finora non si è ancora riusciti a ricreare in laboratorio. Ma perché dovremmo riuscirci ora?

“Abbiamo già studiato la pelle dell’elefante, caratterizzata da una rete di minuscoli canali che regolano il calore corporeo”, spiega Michel Milinkovitch, professore del Dipartimento di genetica ed evoluzione dell’Università di Ginevra. “La nostra ricercaCollegamento esterno pubblicata nel 2018 aveva riscosso un certo interesse, tanto che il National Geographic e la BBC ne avevano parlato. Non siamo quindi dei perfetti sconosciuti per chi si interessa di elefanti”.

Tre milioni e mezzo di euro da Bruxelles

Tra chi si interessa di elefanti c’è anche l’Istituto italiano di tecnologia di Pontedera, nei pressi di Pisa. Tre anni fa, il suo progetto volto a realizzare un braccio elettronico ispirato alla proboscide degli elefanti ha ottenuto un finanziamento di tre milioni e mezzo di euro da parte del programma Horizon 2020 della Commissione europea.

Prima di presentare l’idea a Bruxelles, i ricercatori italiani hanno contattato Michel Milinkovitch. “La richiesta è giunta nel momento giusto”, ricorda il professore. “Avevo la possibilità di recarmi in Sudafrica a studiare elefanti semi-domestici. Inoltre, nelle celle frigorifere dell’università conservavamo due proboscidi, ottenute dagli zoo dopo la morte degli animali”.

Elefante
Michel Milinkovitch in Sudafrica con uno degli elefanti che gli sono serviti da modello. Sean Hensman

Come nel film “Avatar”

Il professore parte per Pretoria con una valigia contenente attrezzature utilizzate solitamente da una troupe di Hollywood. I ricercatori dell’Università di Ginevra intendono infatti sfruttare una tecnica di animazione impiegata per la realizzazione del popolo Na’vi nel film d’animazione Avatar o di Tintin di Spielberg. In questo caso, però, i marcatori riflettenti non sono stati applicati sul volto e sulle tute degli attori, bensì su diversi punti della proboscide dell’elefante. In questo modo, gli esperti sono stati in grado di filmare i movimenti e di creare dei modelli in 3 D molto precisi.

I risultati sono sorprendenti: gli elefanti compiono una ventina di movimenti semplici, basilari, che combinati permettono alla proboscide di eseguire sequenze molto complesse, come formare una curva, creare pseudo-articolazioni o allungare o accorciare l’arto. Un’abilità che permette al pachiderma di cogliere un fiore senza rovinarlo o di sollevare 300 chili, di succhiare e sputare liquidi. E tutto questo senza una struttura ossea.

Di ritorno in Svizzera, l’équipe ginevrina ha scannerizzato le proboscidi degli elefanti morti, utilizzando un metodo classico usato per le diagnosi mediche. Lo scopo era di capire quali combinazioni muscolari permettono tutti questi movimenti. I risultatiCollegamento esterno sono stati pubblicati in agosto sulla rivista Current Biology.

>> Il lavoro dell’équipe di Michel Milinkovitch riassunta in cinque minuti (video in inglese)

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Un aereo non sbatte le ali

La fase robotica inizia ora. “Si tratta di ingegneria inversa”, spiega Michel Milinkovitch. “Noi abbiamo descritto e quantificato questi movimenti, gli esperti di robotica italiani devono tentare di riprodurli. Il loro compito non consiste necessariamente nel copiarli. Devono solo farsi ispirare”. Il professore fa l’esempio dell’aereo che ha ali simili a quelle degli uccelli, ma che però non sbatte. Per questo motivo si parla di sistemi bioispirati.

Inoltre, il fatto di dover inserire un motore nella proboscide artificiale non permetterà di riprodurre tutti i 20 movimenti base. Forse si riuscirà a imitarne 5 o 10. L’idea è di produrre un braccio robotico flessibile capace di rilevare, raggiungere, afferrare, manipolare e rilasciare una serie di oggetti. Le applicazioni sono molteplici: ordinare oggetti di diverse dimensioni e forma, aiutare i soccorritori durante un intervento in una zona colpita da un disastro naturale o assistere una persona anziana.

L’industria bussa alla porta

Per Michel Milinkovitch e il suo gruppo, l’avventura non è per nulla conclusa. “Dobbiamo ancora modellizzare sequenze di traiettorie e quando gli esperti italiani avranno realizzato il loro robot, spetterà a noi analizzare i movimenti per confrontare la macchina con le proboscidi vere”, indica il professore. E poi, quando il braccio sarà costruito, dovremmo rivestirlo. Sappiamo che il materiale con cui vengono ricoperti questi dispositivi è fondamentale. Come fare in modo che una mano metallica colga un fiore senza rovinarlo? Per trovare una soluzione, i colleghi italiani potrebbero avere ancora bisogno dei ricercatori ginevrini che hanno già acquisito una certa esperienza per quanto riguarda la pelle dell’elefante.

“Il primo prototipo dovrebbe essere ultimato in circa 18 mesi”, indica il professore, “e il progetto ha già suscitato un certo interesse tra gli industriali. Non posso però ancora fare dei nomi in questo stadio dello sviluppo. Ma l’interesse è reale”.

Troppo bello!

Con questi due progetti di ricerca, Michel Milinkovitch si è allontanato non poco dai suoi temi classici. Un’occhiata al lungo elenco delle sue pubblicazioni è sufficiente per farci capire quanto sia ampio il suo ventaglio d’interessi. In passato ha studiato, ad esempio, i cristalli fotonici che permettono ai camaleonti di cambiare colore, le impronte genetiche degli antenati delle balene o le popolazioni di tartarughe giganti delle Galapagos.

“Oggi, la scienza è troppo isolata in scomparti stagni. Dobbiamo scegliere una disciplina, ma i suoi confini non sono ben definiti. E poi la natura li ignora”. Michel Milinkovitch

Per questo convinto seguace della transdisciplinarità, l’eclettismo sembra essere la chiave della ricerca. “Oggi, la scienza è troppo isolata in scomparti stagni. Dobbiamo scegliere una disciplina, ma i suoi confini non sono ben definiti. Inoltre, la natura li ignora”, sostiene Milinkovitch. “Il problema è che a volte gli scienziati non conoscono i principi fondamentali delle altre discipline. Così, quando scrivo un’equazione alla lavagna, i miei studenti iniziano ad allarmarsi perché non sono in una classe di matematica. Ma poi basta spiegare loro che un’equazione può essere il modo più semplice per descrivere un fenomeno, una relazione”.

Realizzare dei robot ispirandosi agli elefanti non è proprio “ciò che facciamo abitualmente”, ammette Michel Milinkovitch. Poi aggiunge: “Ma non potevo rinunciare a questo progetto. Era troppo bello!”.


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