La società ha bisogno di quote?
Indispensabili secondo gli uni, dannose secondo gli altri, le quote suscitano regolarmente polemiche. Per il politologo svizzero Nenad Stojanovic, possono migliorare la situazione di gruppi di popolazione sottorappresentati nelle istituzioni o nella società. Ma per essere efficace, un sistema di quote non dovrebbe essere rigido.
Presenza femminile nelle alte sfere aziendali e nella politica, rappresentanza di minoranze linguistiche o etniche: le quote hanno spesso contemporaneamente sia vantaggi che svantaggi . In un recente libro – Dialogue sur les quotas. Penser la représentation dans une démocratie multiculturelle (Dialogo sulle quote. Pensare la rappresentanza in una democrazia multiculturale) – Nenad Stojanovic auspica soluzioni flessibili.
swissinfo.ch: In Svizzera, i diversi gruppi linguistici sono rappresentati in parlamento in base al loro peso demografico. Si può già parlare di quote?
Nenad Stojanovic: Sì, ma nel senso più ampio del concetto. In senso stretto, una quota consisterebbe nel riservare un certo numero di seggi a una minoranza linguistica. Ma in Svizzera, nessun gruppo linguistico beneficia in quanto tale di una quota.
Ogni circoscrizione, vale a dire ogni cantone, dispone di un numero di seggi. Se i ticinesi, per esempio, hanno otto seggi alla Camera bassa e due nella Camera alta, non è perché sono italofoni, ma perché sono di un cantone che ha diritto a quel numero di seggi.
Qui siamo già entrati nella soluzione al dilemma delle quote. Le quote rigide e formali hanno molti inconvenienti. Perciò occorre trovare dei meccanismi indiretti. È il caso con i cantoni, che consentono di fissare una regola, senza però riconoscere una comunità linguistica.
Nato in Bosnia-Erzegovina nel 1976, Nenad Stojanovic vive in Svizzera dal 1992.
Dopo il liceo in Ticino, ha studiato scienze politiche a Ginevra, Parigi, Londra, Montreal e Zurigo, dove ha conseguito il dottorato.
Ha lavorato come giornalista e nell’amministrazione federale, poi, dal 2004, si è dedicato alla ricerca scientifica. Lavora presso il Centro di studi sulla democrazia di Aarau (ZDA) e dà regolarmente corsi presso le università di Sarajevo, Friburgo, Zurigo e Losanna.
Politicamente impegnato, milita nel Partito socialista. È stato membro della direzione del partito a livello svizzero dal 2004 al 2008. Nello stesso quadriennio è stato deputato comunale a Lugano. Eletto al parlamento del cantone Ticino nel 2007, ha lasciato il mandato nel novembre 2013, per prendere un “congedo paternità” in vista della nascita del secondo figlio.
swissinfo.ch: Cosa ci sarebbe di male a riservare dei seggi a una comunità linguistica?
N. S.: Se si fissa la lingua, si entra rapidamente in un discorso essenzialista. Una persona è sufficientemente francofona, tedescofona o italofona? È il caso quando dei politici bilingui, ma di origine tedescofona, sono candidati a rappresentare il cantone di Friburgo, a maggioranza francofona, nel governo federale. Vi sono allora talvolta dei dibattiti che sono al limite di un razzismo linguistico.
Da notare per inciso che non esiste alcuna regola formale sulla composizione del governo. Ma de facto, sarebbe impensabile un governo composto interamente di tedescofoni. Qui siamo dunque nel campo delle quote informali, poiché non vi è alcun obbligo formale di tener conto della diversità linguistica del paese.
swissinfo.ch: In molti paesi, le donne sono sottorappresentate in politica. Come promuoverle, se non con le quote ?
N. S.: La questione delle donne è speciale perché non è possibile utilizzare dei meccanismi indiretti, che io preferisco per le comunità linguistiche. È ovviamente impossibile risolvere la questione delle donne tramite una circoscrizione elettorale.
Ma ciò non significa che una quota è l’unica soluzione . Ci sono altri mezzi. Ad esempio, la Francia ha emanato una legge sulla parità che obbliga i partiti ad avere lo stesso numero di uomini e donne sulle liste di candidati, pena una multa . Si tratta di un incentivo. Si garantisce la scelta, ma si mantiene la libertà di voto. Questo provvedimento ha migliorato la situazione in Francia.
swissinfo.ch: Quando si parla di quote, il pensiero va spesso agli Stati Uniti.
N. S.: Sì , ma è una concezione sbagliata. Negli Stati Uniti, non esiste alcuna quota a livello politico. Quota come parola e concetto lì è persino tabù.
Per migliorare la rappresentanza delle minoranze , gli americani preferiscono lavorare a monte del problema, a livello di istruzione, attraverso la cosiddetta discriminazione positiva. Le università possono privilegiare delle comunità storicamente svantaggiate. Ma questa politica rimane controversa. L’ultima tendenza è quella di accettare queste discriminazioni positive, se non sono troppo esplicite.
Anche la Francia esplora questa via, privilegiando giovani provenienti da aree prioritarie in materia di istruzione [quartieri poveri, dove lo Stato fornisce risorse supplementari per l’istruzione, Ndr.]. In realtà, senza dirlo apertamente, si utilizza questo espediente per migliorare la rappresentanza delle minoranze etniche nelle alte scuole.
swissinfo.ch: Non è un po’ un’ipocrisia?
N. S.: Questa non è ipocrisia, ma una strategia intelligente per raggiungere l’obiettivo desiderato, vale a dire una migliore rappresentazione della società nella sua diversità, evitando però gli effetti negativi di un sistema di quote rigido.
swissinfo.ch: E quali sono questi effetti perversi?
N. S.: C’è qualcosa di problematico nell’idea stessa della democrazia rappresentativa se si riservano dei seggi a una categoria. Si parte dal presupposto che degli uomini non possono rappresentare delle donne, dei cattolici dei protestanti, o degli svizzeri tedeschi dei romandi. Se si spinge questa idea all’estremo, allora nessuno può rappresentare qualcuno.
C’è anche un problema di libertà degli individui . Ogni cittadino ha più identità: sesso, lingua, religione, idee… Ridurre tutta questa pluralità ad un unico criterio di identificazione può nuocere alla libertà di una persona di autodefinirsi.
swissinfo.ch : Qual è dunque la soluzione migliore, secondo lei?
N. S.: Occorre provare tutti i mezzi disponibile – sistema elettorale, federalismo, quote nelle liste – per assicurare un certo equilibrio della rappresentanza nelle istituzioni, ma senza l’uso di quote rigide.
Ma se si devono veramente usare, ad esempio porre fine a una guerra civile garantendo a tutte le parti una rappresentanza nel governo, è opportuno stare attenti a non irrigidire i meccanismi, perché è poi molto difficile modificarli, anche se la situazione è cambiata.
In Svizzera ci sono alcuni esempi di quote formali, soprattutto a livello di cantoni e di comuni.
Nel cantone di Berna, a netta maggioranza tedescofona, ci sono seggi espressamente riservati alla minoranza francofona sia nel governo sia nel parlamento cantonale.
Un altro esempio, nell’aprile 2013, il parlamento della città di Zurigo ha accettato una mozione che chiede l’introduzione di un tasso minimo del 35% di donne tra i quadri dell’amministrazione comunale (attualmente le donne costituiscono il 17%).
Il 6 novembre 2013, il governo federale ha adottato delle “disposizioni sulla rappresentanza delle lingue e dei sessi negli organi di direzione superiori delle venti aziende vicine Confederazione”, che entreranno in vigore il 1° gennaio 2014. Entro la fine del 2020, la proporzione di donne dovrà raggiungere il 30% e quella delle comunità linguistiche dovrà essere equivalente al loro peso demografico (tedesco 65,5%, francese 22,8% francese, italiano 8,4% e romancio 0,6%).
Le richieste di quote non riguardano esclusivamente i generi e le lingue. Lo scorso settembre, il deputato Luc Barthassat ha depositato una mozione in cui sollecita una modifica della legge sulla radio e la televisione, per obbligare le radio a trasmettere un minimo del 25% di musica svizzera.
(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)
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