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“Ognuno cerca di avere il papa dalla sua parte”

Udienza generale in Piazza San Pietro, 22 aprile 2009: Benedetto XVI indossa la kuffiah, il tradizionale scialle palestinese, offertagli da due giovani cristiani palestinesi Keystone

Benedetto XVI inizia l'8 maggio in Giordania una visita di una settimana in Terra Santa. In Israele e nei territori palestinesi la visita del pontefice suscita molte aspettative. Un viaggio non facile per il "pellegrino di pace". Reportage.

“Sia il benvenuto”, ma più spesso “non mi interessa molto”. Nelle affollate stradine del quartiere ebraico di Gerusalemme, che conducono al Muro del pianto, l’imminente inizio della seconda visita ufficiale di un papa in Israele non suscita grandi attese. Sicuramente, assai meno di quelle che nove anni fa avevano preceduto l’arrivo di Giovanni Paolo II, il pontefice polacco.

“La ragione non sta tanto nel loro diverso temperamento”, sottolinea il gran rabbino Israel Lau, ricevendoci nel suo ufficio carico di foto sulla storia dell’ebraismo.

“Il fatto è che a Cracovia il futuro papa vide l’Olocausto con i suoi occhi. Vide cosa veniva fatto a quelli che poi definì ‘i nostri fratelli maggiori’. Per questo rimane il pontefice che più ha fatto e più si è impegnato nel rapporto costruttivo con noi ebrei, nella denuncia dell’antisemitismo e nello stabilimento di relazioni diplomatiche tra Vaticano e Stato di Israele. Posso solo sperare e pregare che il suo successore continui sulla strada tracciata da Wojtyla”.

Famiglia originaria di Cracovia, come quella di Giovanni Paolo II, il gran rabbino riconosce che con i suoi chiarimenti Benedetto XVI ha escluso che nella Chiesa cattolica vi possa essere posto per l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto. Però non se la sente ancora di esprimere un giudizio netto.

Gli pesa soprattutto il fatto che il Vaticano non abbia ritirato la sua delegazione dalla Conferenza di Ginevra sui diritti umani, dopo l’ennesimo attacco dalla tribuna a Israele da parte del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Comunque, precisa, “sarò felice di accoglierlo al Memoriale dell’Olocausto, di cui sono presidente”.

La visita al Museo della Shoah

È infatti allo Yad Vashem, il Museo della Shoah a Gerusalemme, che il papa andrà raccogliersi subito dopo il suo arrivo in Israele, l’11 maggio. Scelta sicuramente non casuale, anzi volutamente simbolica. Come a voler cancellare qualsiasi eventuale residuo dubbio sulle sue opinioni in merito al crimine assoluto che fu l’Olocausto.

“Anche per questo la sua venuta assume un carattere estremamente importante”, ci dice Estee Yaari, la giovane portavoce di Yad Vashem. “Capisco comunque che il raffronto con la visita che effettuò qui anche Karol Wojtyla sia inevitabile. Aspettiamo un papa che viene dalla Germania, che da ragazzo fu arruolato nei reparti della ‘Gioventù hitleriana’ e che ora renderà omaggio alle vittime del nazismo. Anche questo fatto sottolinea l’eccezionalità dell’evento”.

Il papa non visiterà le sale in cui si trova anche la targa che denuncia i silenzi di Pio XII durante la Shoah. Estee Yaari è categorica: “Si tratta solo di un fatto dettato dal protocollo: tutti i capi di Stato che sono venuti qui si sono limitati a raccogliersi nella sala del memoriale che ricorda i bambini vittime dell’Olocausto. Non ci sono altri e più reconditi motivi”.

“Il papa è circondato da gente poco competente”

Sergio Minerbi, ex ambasciatore di Israele in Africa e in Europa, noto per il suo parlare schietto, non condivide il ricordo positivo lasciato anche fra i dirigenti israeliani da Giovanni Paolo II.

In un articolo che suscitò scalpore e polemiche, rimproverò anzi al papa di voler “cristianizzare la Shoah”. In sostanza di non considerarla una tragedia esclusivamente ebraica.

“A Ratzinger avevo invece guardato subito con simpatia. Da una parte perché preferisco le posizioni nette, senza ambiguità, che consentono di sapere come la pensa il tuo interlocutore. E questa mi era sembrata una caratteristica positiva del papa teologo. Inoltre, dopo il discorso di Ratisbona, avevo visto in lui un papa deciso a contrastare l’assalto del radicalismo islamico nei confronti dell’Europa”.

E invece? “Mi ha deluso. Ha fatto marcia indietro, si è precipitato in Turchia e nella Moschea blu di Istanbul. Mi sembra poi evidente che la vicenda dei lefevriani negazionisti, e la sua gestione, dimostrino che nella Curia romana questo papa è circondato da gente poco competente. Sull’ebraismo continua a nutrire idee preconcette”.

Secondo Minerbi, papa Ratzinger avrebbe forse bisogno al suo fianco di un Ratzinger cardinale che lo sappia consigliare meglio. “Anche sulla battaglia di Gaza è stato deludente, non ha capito che quella per Israele era una guerra inevitabile per la propria sicurezza. Ecco quello che mi piacerebbe sentire dal papa nei prossimi giorni: Israele ha diritto di ricorrere anche alle armi per la propria sopravvivenza, ma non credo proprio che lo dirà”.

Le aspettative palestinesi

Giudizi del tutto opposti quelli che invece si possono raccogliere a una manciata di chilometri di distanza, a Betlemme, la città della Basilica della Natività con la celebre “mangiatoia”, tra la minoranza cattolica palestinese.

Gli arabi cattolici della Cisgiordania – come del resto la leadership palestinese – si aspettano da Benedetto XVI parole ferme sui propri diritti.

“Capisco che possa sorprendervi che si parli più dell’aspetto politico che di quello religioso di questa visita papale – ammette padre Faisal Hijazen, prete di origine giordana – ricevendoci all’Università cattolica di Betlemme, dove insegna etica sociale, in un corso frequentato anche da molte studentesse musulmane.

“Ma dovete capire che in sostanza l’occupazione militare israeliana continua. I palestinesi vivono isolati dal lungo muro, cosiddetto di sicurezza, costruito dagli israeliani. Non hanno libertà di movimento, vengono fermati, perquisiti e spesso umiliati ai posti di blocco. Non ci sono prospettive economiche, la pace e il diritto a uno Stato sembrano traguardi irrealizzabili”.

La visita di Benedetto XVI assume così una valenza fortemente politica per i 35mila cattolici di Cisgiordania e Gaza. “Prima di partire il papa ha detto di venire in Terra Santa come ‘pellegrino di pace’. E noi speriamo che le sue preghiere e il consolidamento del dialogo interreligioso tra cristiani, ebrei e musulmani gli consentano appunto di realizzare questa sua missione, o quantomeno di imprimere un impulso decisivo in questa direzione”, sottolinea il prete di origine giordana.

Un viaggio non facile per il papa

Padre Feisal ci porta anche dai due giovani cristiani del vicino villaggio di Bet Sahur, che lui stesso aveva accompagnato poche settimane fa a Roma, e che a San Pietro, avevano messo al collo di papa Ratzinger una ‘kuffiah’, il tradizionale scialle palestinese.

Un’immagine che ha fatto il giro del mondo e ha creato qualche imbarazzo in Vaticano nell’imminenza della visita del papa in Israele. Il liceale Anton Salsah, uno dei protagonisti, riguarda le foto di quell’episodio e ricorda: “Noi stessi siamo rimasti sorpresi dal fatto che il pontefice abbia accettato di indossare la kuffiah, il simbolo stesso della Palestina. Secondo me è un gesto con cui ha voluto farci capire che conosce i nostri problemi e crede ai nostri diritti.”

Un viaggio non facile per il “pellegrino di pace”. Ognuno cerca di avere il papa dalla sua parte. Nel contiguo campo profughi di El Adia, isolato da Betlemme dall’alto “muro di sicurezza” costruito dagli israeliani in funzione anti-terrorismo, fervono i preparativi per la visita del pontefice.

Si sta costruendo anche un palco su cui il Comitato del campo vuole che si svolga la cerimonia ufficiale. Un palco costruito sotto il muro. Perché qui vogliono che Ratzinger sia fotografato e filmato. Proprio dove c’è quello che per palestinesi è diventato il simbolo della repressione israeliana.

Ma pochi giorni fa i militari dello Stato ebraico sono arrivati al cantiere e hanno consegnato un’intimazione scritta dall’autorità militare israeliana.” Nulla può essere costruito lungo il muro”. Un divieto che i palestinesi dicono di non voler accettare.

Aldo Sofia, Gerusalemme, swissinfo.ch

Il papa visita la Terra Santa dall’8 al 15 maggio.

Il programma di Benedetto XVI inizia in Giordania, dall’8 all’11 maggio, quindi prosegue in Israele e nei Territori.

In otto giorni il pontefice prevede di pronunciare 27 discorsi, incontrare presidenti, re e capi di Stato e religiosi, visitare ospedali e un campo profughi.

Ma soprattutto il papa ha in agenda un pellegrinaggio nei luoghi più sacri del Cristianesimo, dal Monte Nebo a Betlemme, da Nazareth al Santo Sepolcro.

In qualità di presidente della Conferenza episcopale svizzera, anche il vescovo di Basilea Kurt Koch prende parte al pellegrinaggio del papa in Terra Santa.

Il vescovo Koch, insieme all’arcivescovo tedesco Robert Zollitsch, incontrerà Benedetto XVI e il presidente palestinese Mahmud Abbas, il 13 maggio a Betlemme.

L’incontro avverrà al Caritas Baby Hospital, l’unico ospedale specializzato per bambini nei Territori palestinesi, dove vengono trattati oltre 30mila piccoli pazienti ogni anno.

L’ente umanitario con sede a Lucerna “Aiuto Bambini Betlemme”, partner dell’ospedale, intrattiene da tempo relazioni di amicizia sia con il vescovo di Basilea che con quello di Friburgo in Brisgovia.

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