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Una storia svizzera nel cuore della borghesia ecuadoriana

Alcuni membri della famiglia Durini: al centro Josefina, a destra Patricio swissinfo.ch

Il loro antenato Giovanni arrivò in America latina attorno al 1870. Oggi la famiglia Durini vive a Quito. Il loro nome è legato indissolubilmente alla storia dell'architettura ecuadoriana. Ma i Durini non hanno dimenticato le loro origini svizzere e ticinesi.

Una visita a Josefina Durini, figlia di Francesco, artefice del rinnovamento architettonico della capitale ecuadoriana nella prima metà del XX secolo.

«È uno dei quartieri più esclusivi della città», osserva Patricio Mena Durini quando in automobile entriamo nel quartiere Tennis Club, nella parte settentrionale di Quito. Qui vive sua zia Josefina, figlia di Francesco Durini Caceres e memoria storica della famiglia.

Doña Fina, com’è chiamata in famiglia, vive in un confortevole appartamento al primo piano di una palazzina progettata dallo stesso Patricio. Una palazzina in stile razionalista, ben lontana dall’eclettismo neoclassico che fece la fortuna del nonno Francesco.

«Avevo spesso discussioni accese con mio nonno, perché per lui il razionalismo di Le Corbusier non era vera architettura», ricorda Patricio. «Però mi regalò una collana di libri sulla storia dell’architettura, che conservo ancora oggi».

Lessico famigliare

Nell’abitazione di Josefina si respira l’atmosfera della borghesia d’altri tempi: mobili e specchi dai fastosi intagli dorati, statuette e oggetti in stile neoclassico di produzione europea, fiori e vecchie fotografie di famiglia.

«Mio padre era un gran lavoratore», racconta Josefina, ottant’anni portati con disinvoltura. «Passava però la domenica con noi bambini. E cercava sempre di stimolarci. Ci diceva: Giocate a tennis, montate a cavallo, andate in bicicletta»

La figlia di Francesco si muove fra i suoi ricordi senza esitazione, con la naturalezza di chi conosce il proprio posto nel mondo e nella società. «Non ci ha mai puniti. Però era energico nello spiegare quali erano le regole della famiglia. Chi non le rispetta può cercarsi un altro cognome, diceva».

Josefina ride, offre vino e biscotti, circondata dai suoi familiari. Dalle fotografie ingiallite occhi scuri e visi fieri osservano il visitatore.

Villa Helvetia

Giovanni, bisnonno di Josefina, lavorava nelle cave di Arzo. Negli anni Settanta dell’Ottocento partì per le Americhe, come tanti ticinesi, ma con un contratto di lapicida in tasca. Dal Perù i figli si trasferirono in America centrale e quindi a Quito.

Il nipote di Giovanni, Francesco, divenne uno degli architetti e dei costruttori di riferimento della classe dirigente ecuadoriana. La famiglia strinse legami di affari e di parentela con la borghesia quiteña. Ancora oggi i Durini hanno un ruolo importante nell’industria del legno.

Ma le radici svizzere rimangono forti. «Vivevamo in una casa disegnata da mio padre in via Luis Cordero. Si chiamava Villa Helvetia», dice Doña Fina. Francesco aveva frequentato le scuole in Ticino, per anni rimase in contatto con una sua maestra. «Si chiamava Elisabetta. Gli mandava ritagli di giornale, notizie dalla Svizzera».

Nel giardino di Villa Helvetia sventolava la bandiera svizzera. «Mia madre comprò la tela rossa e vi cucì la croce bianca. Quando c’era qualche rivolta in Ecuador issavamo la bandiera, per far rispettare la casa». Josefina ha la nazionalità svizzera, accanto a quella ecuadoriana. Altri membri della famiglia stanno cercando di recuperarla.

Sulle spalle degli operai

Francesco Durini lavorò per decenni come architetto, a Quito e in altre città dell’Ecuador. Ebbe un ruolo di primo piano nel diffondere il linguaggio eclettico europeo nel Nuovo Continente e nell’applicare nuove tecniche di costruzione, come il cemento armato.

«Per certi versi si avvicinò anche alle correnti moderniste dell’Art Nouveau, ma vivendo in Ecuador rimase piuttosto isolato dal dibattito architettonico internazionale», osserva Patricio Mena Durini.

Negli ultimi anni della sua vita, Francesco si dedicò però piuttosto alla filantropia. «Insieme a un frate domenicano e con l’appoggio di alcuni membri della borghesia cittadina fondò un comitato di soccorso operaio», ricorda Doña Fina. Il comitato organizzò corsi di formazione e comprò un terreno su cui fece costruire abitazioni per gli operai.

«Mio padre amava molto i lavoratori, cercava di aiutarli. Quando morì, il giorno del funerale i suoi operai non permisero che fosse trasportato in carrozza. Si caricarono il feretro sulle spalle». Josefina si fa riflessiva, lo sguardo sembra perdersi nel passato. «Onore e lavoro: era questa la sua vita. Su questi valori ci siamo formati».

swissinfo, Andrea Tognina, di ritorno da Quito

Figlio di Lorenzo (1856-1920) e nipote di Giovanni (1826-1907), Francesco Durini (1880-1970) studiò per alcuni anni architettura a Milano prima di essere richiamato nel 1904 in Ecuador dal padre, per portare a termine il monumento ai martiri dell’Indipendenza nella Piazza grande di Quito.

Negli anni successivi Francesco realizzò numerosissime opere, sia nella capitale, sia in altre città del paese andino. Tra di esse si possono ricordare il vecchio Circolo militare a Quito (disegnato nel 1917), la vecchia sede della Banca centrale dell’Ecuador (1921), il primo edificio della Cassa pensioni (1920) e la Banca di Pichincha (1936).

Tra le sue opere urbanistiche di maggiore rilievo va citato il Passaggio Royal, costruito nel 1920 ispirandosi alla Galleria Vittorio Emanuele di Milano, abbattuto nel 1960.

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