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Max Frisch, critico a ragion veduta

Max Frisch nel 1989 Keystone Archive

Il 4 aprile del 1991 moriva Max Frisch, uno dei più noti e celebrati scrittori svizzeri. In vita era stato uno degli intellettuali che con più coerenza avevano saputo assumere il ruolo di coscienza critica della nazione. A dieci anni dalla morte, la stampa elvetica s'interroga sull'attualità della sua opera. Con il rischio di liquidarlo troppo in fretta.

Nato a Zurigo nel 1911, Frisch studiò germanistica e architettura nella città natale. Dell’architettura fece il suo mestiere – «una professione onesta» come gli ebbe a dire Bertolt Brecht durante una visita a Zurigo – fino al 1955. Ma più forte fu la vocazione letteraria. Già prima e durante la seconda guerra mondiale, Frisch pubblicò le prime opere, tra cui i «Fogli dal tascapane», un diario della sua esperienza sotto le armi.

Ma fu nel dopoguerra che la figura di Max Frisch scrittore emerse con forza, imponendosi come una delle maggiori voci nel panorama letterario di lingua tedesca. In opere teatrali e romanzi come «Don Giovanni ovvero l’amore per la geometria» (1953), «Stiller» (1954), «Homo faber» (1957), «Omobono e gli incendiari» (1958), «Andorra» (1961), «Il mio nome sia Gantenbein» (1964), «Montauk» (1975), «L’uomo nell’Olocene» (1979) Frisch esplorò con lucidità e ironia la condizione dell’uomo contemporaneo, la sua ricerca di identità e le contraddizioni e le ambiguità della borghesia.

Profondamente radicato nella realtà svizzera, Frisch seppe dare dignità letteraria e significato universale alla sua esperienza maturata in un piccolo paese. Un approccio alla letteratura, il suo, che andava di pari passo all’osservazione attenta della realtà circostante, prima di tutto di quella svizzera. E che lo induceva ad intervenire con frequenza nel dibattito politico e culturale elvetico.

Fra gli interventi più noti, vi è la sua presa di posizione sulla questione dei lavoratori stranieri in Svizzera nel 1965, un articolo il cui titolo è entrato nel canone delle frasi celebri: «Cercavamo delle braccia, sono arrivati degli uomini». Ma l’osservatore critico emerge anche nei diari, sia in quelli del 1946-1949, sia soprattutto in quelli del 1966-71. Ed in un testo che può essere considerato esemplare della maturazione del suo atteggiamento verso la Svizzera, «Libretto di servizio» (1974), una riflessione sugli anni della seconda guerra mondiale.

Il ruolo della Svizzera durante il nazismo e la guerra, è un tema che ha accompagnato Frisch durante tutta la sua esistenza. Negli anni Trenta, i suoi primi passi nel mondo letterario erano stati nel segno di un’estetica per nulla in contrasto con l’antimodernismo che dominava il panorama culturale della Germania nazista. E il suo orizzonte divenne ben presto quello della «Geistige Landesverteidigung» (la difesa nazionale spirituale), l’ambigua risposta della Svizzera alla minaccia nazista, una risposta che combinava una latente xenofobia ad un’idealizzazione conservatrice delle virtù del paese.

In quella temperie culturale nacquero anche i «Fogli del tascapane», testimonianza preziosa dell’attitudine di un’intera generazione di uomini svizzeri, la «generazione del servizio attivo», che trascorse cinque anni a vegliare sulle frontiere del paese, mentre la Svizzera curava relazioni per quanto possibile cordiali con il potente vicino.

Un uomo del servizio attivo dunque, Max Frisch. Ma che a differenza di una parte consistente della sua generazione, seppe riconoscere – aprendosi al mondo postbellico dopo gli anni d’isolamento – la cesura del 1945, una cesura che non poteva lasciare indifferente neppure un paese neutrale come la Svizzera.

Lo scrittore critico nacque dopo quella cesura, maturò da essa. Non è quindi un caso che con il «Libretto di servizio», uscito del resto in anni in cui anche la storiografia svizzera stava rivedendo la sua lettura della seconda guerra mondiale, Frisch tornasse all’esperienza del «servizio attivo». Ma con un piglio critico e ironico del tutto diverso dal primo resoconto del 1940, volto con energia a smontare i miti della difesa armata. E al tema riandò, in occasione dell’iniziativa per l’abolizione dell’esercito nel 1989, con «Svizzera senza esercito? Una chiacchierata rituale».

Frisch, insomma, rappresentava l’altro volto della «generazione del servizio attivo», il volto di chi aveva saputo riflettere con autocritica sul passato proprio e del proprio paese. Con ironia e senza chiudersi nel mito. Forse il suo contributo culturale sente il peso degli anni, come in questi giorni si è spesso ripetuto nella stampa elvetica. Ma come non pensare che la sua voce sia mancata, in anni recenti, quando è tornato a divampare il dibattito sul ruolo della Svizzera nella seconda guerra mondiale? Da veterano, avrebbe potuto parlare a ragion veduta.

Andrea Tognina

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