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La piazza delle scimmie

L'esercito delle scimmie di Tim Burton. Tim Burton

Cielo stellato e una decina di migliaia di persone venerdì sera per celebrare in Piazza Grande a Locarno uno degli eventi più attesi del festival, la prima europea del "Pianeta delle scimmie" di Tim Burton. Un film giocato, come il suo antenato degli anni Sessanta, sul rovesciamento di ruoli fra scimmie e uomini. Senza grandi sorprese.

Lo si aspettava al varco Tim Burton, geniale rimestatore di film e personaggi della storia minore del cinema (basti pensare a “Batman”, “Ed Wood” e “Mars Attacks!”). Lo si aspettava. Ed ora è sbarcato a Locarno, dopo aver scassinato in due settimane i botteghini americani con le scimmie e carabattole della sua ultima fatica, la rivisitazione del celeberrimo “Pianeta delle scimmie”. Senza fare terra bruciata, a dire il vero.

Ma procediamo con ordine, iniziando dalla trama: un astronauta – americano, ci mancherebbe altro – è risucchiato da una perturbazione spazio-temporale e finisce in un pianeta dominato da una civiltà di scimmie, in cui gli uomini sono ridotti in schiavitù. L’eroe piovuto dal cielo naturalmente riscatta l’umanità, con l’aiuto di una scimmia umanista (aggettivo che qui ha il senso di animalista, per intenderci) e di un’altra scimmia, anch’essa piovuta dal cielo.

Dopo tanto odio, per il pianeta si apre un’epoca di pacifica convivenza tra cugini primati. Ma l’eroe ha una famiglia che l’aspetta – che “good american guy” sarebbe, sennò – e se ne torna sulla Terra, non prima ovviamente di avere teneramente preso congedo dalla scimmia umanista e da una bionda umanissima e discinta. Sulla Terra l’aspetta però una brutta sorpresa, che preannuncia un “Pianeta delle scimmie 2” e che sarebbe ben crudele rivelare in queste righe.

Tutto qui. Né sarebbe tanto importante, dal momento che il talento di Burton sta proprio nel portare la trama più banale alle sue estreme conseguenze, fino a renderla così trasparente da permettere lo sguardo dentro i meccanismi della finzione. Altri l’hanno fatto per sbaglio, lui lo fa a proposito. E non è poco.

Così non sorprende che ci aspettasse molto dalla sua rivisitazione del soggetto del “Pianeta delle scimmie”. Un film – quello del 1967 intendo – importante non per il suo valore intrinseco, ma per il contributo all’immaginario di un’epoca. Chi non ricorda le rovine della statua della libertà sprofondate nella sabbia di una spiaggia? Un’immagine da far accapponare la pelle a qualsiasi benpensante americano e all’origine di innumerevoli citazioni. In fondo la quintessenza dei timori di una civiltà a rischio di apocalisse.

Terreno di caccia ideale, insomma, per uno alla Tim Burton. Ma non volendo fare un vero e proprio remake, Burton non ha osato neppure fare un film veramente nuovo, né un film ironico. Ha realizzato un film serio. Altri registi forse avrebbero dato un occhio per un simile risultato. Ma da Burton, francamente, ci si poteva aspettare di più. Difficile trovare la chiave, di solito a portata di mano, per scardinare il procedere lineare della trama. Difficile immaginarsi cosa possa restare, di questo film.

Tuttavia, come per tutti i film di genere, bisognerà forse attendere di rivederlo decine di volte su videocassetta per coglierne le sfumature rivelatrici e farne man bassa. Intanto il pubblico di Piazza Grande sembra aver gustato, non fosse che per il cielo clemente. E dopotutto “Il pianeta delle scimmie” ha pur dato argomenti di discussione, per qualcosa come il tempo di bersi un paio di birre.

Andrea Tognina, Locarno

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