L’ultimo capitolo della trilogia sulla migrazione di Sylvain George arriva a Cannes

Il documentario del regista francese, Nuit Obscure – Ain’t I a Child?, è stato selezionato per ACID, una sezione del festival di Cannes dedicata alle opere audaci e coraggiose. Il regista ha parlato con swissinfo.ch in occasione della premiere del film al festival del documentario Visions du Réel, tenutosi a Nyon a inizio aprile.
Sylvain George, regista di non-fiction e filosofo, conclude la sua trilogia Nuit Obscure con Ain’t I a Child? (Non sono forse un bambino?), titolo ispirato al celebre discorso “Ain’t I a Woman?” (Non sono forse una donna?) dell’abolizionista e attivista per i diritti civili afroamericana Sojourner Truth.
Come suggerito dal titolo, l’ultimo film di George, una coproduzione svizzero-francese-portoghese, è pensato per sollevare domande più che per dare risposte. Che cos’è l’infanzia? Chi vi ha accesso? Chi viene protetto e chi invece trascurato?
I documentari di George hanno per protagonisti dei bambini migranti. Le prime due parti della trilogia – Feuillets sauvages (Les brûlants, les obstinés, 2022) e Au revoir ici, n’importe où (2023) – sono girate a Melilla, un’enclave spagnola in Marocco, al confine tra Africa ed Europa. Per George, “il bambino è sempre ridotto a qualcuno che deve essere ‘salvato’, una vittima a cui viene negata l’innocenza dell’infanzia”.
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Inoltre, a seconda della sua appartenenza razziale un bambino può essere considerato “selvaggio” o pericoloso: “Basti pensare al diciassettenne Nahel Merzouk, che nel 2023, in Francia, è stato ucciso da un poliziotto perché non aveva la patente. Non è stato trattato come un minore in pericolo, ma come una minaccia da neutralizzare immediatamente”, dice George.
Ai bambini e alle bambine migranti è concessa una forma particolare di infanzia, plasmata dal controllo e dall’abbandono. “Il film mette in discussione ciò che costituisce il visibile”, afferma George. “La politica non fa che mettere le persone migranti sotto i riflettori, ma allo stesso tempo le rende invisibili; quando scompaiono, diventano l’ennesima statistica che svanisce senza lasciare traccia”.
La rivolta nel limbo
I primi due documentari seguono la vita quotidiana di questi bambini a Melilla, mentre nascondono le loro cose sotto le grate dei tombini, giocano, litigano, nuotano, scavalcano il filo spinato, si arrampicano sulle mura fortificate della città, deridono le guardie notturne.
Si costruiscono una vita in questo limbo tra le case che hanno lasciato e l’Europa, luogo che cercano. I bambini del film si ribellano alle aspettative capitaliste e colonialiste, alle routine quotidiane del lavoro e del tempo libero, alle norme della legalità e dell’ordine.
In Ain’t I a Child? Malik, Mehdi e Hassan, le figure centrali dei film precedenti, arrivano a Parigi. “Non era mia intenzione girare un film in Europa”, racconta George, “ma ero rimasto in contatto con molte delle persone che erano apparse nei primi due film e un giorno Malik mi ha chiamato dicendo che si trovava a Parigi. Da lì, sono arrivate anche molte delle persone che stavano a Melilla”.
George ha iniziato le riprese nel 2021 ed è andato avanti due anni, scoprendo gli spazi nascosti della sua città natale insieme ai bambini. “Il film – spiega il regista – parla del mito dell’arrivo, dove Parigi diventa un’altra soglia: non una destinazione ma la prosecuzione di una violenza che continua a dislocare queste persone, a tentare di cancellarle e nasconderne l’esistenza”.
Orbitando intorno alla Torre Eiffel, i ragazzi ne ricavano una nuova visione della città: un paesaggio alienante e purgatoriale dove edifici abbandonati, fogne, barconi sulla Senna e parchi notturni diventano rifugi. I souvenir della Torre sparsi per le strade fungono da false icone, rispecchiando il miraggio della capitale.

La migrazione è un percorso lento
L’etica cinematografica di Sylvain George si rifà al suo trascorso di filosofo ed ex assistente sociale, oltre che agli scritti di Walter Benjamin e Jacques Rancière. Con una durata complessiva di circa dieci ore, la trilogia adotta i ritmi lenti del cinema d’osservazione.
A questo scopo, si astiene da una narrazione lineare delle difficoltà vissute dai protagonisti, in favore di sequenze ripetitive e routinarie: le vite dei bambini si svolgono in una successione di notti senza fine. Il ritmo scelto da George contrasta nettamente con le rappresentazioni tipiche dell’immigrazione, generalmente inquadrate da titoli sensazionali o archi drammatici caratterizzati dall’immediatezza.
“La lentezza invita ad adottare uno sguardo diverso, a cogliere il tempo sospeso dell’esilio, del vagabondaggio, dove i continui spostamenti lasciano il futuro in attesa. La migrazione non è una traiettoria lineare, ma circolare: si ferma, trasforma il confine in uno spazio mutevole”, afferma George.
La sua opera contrasta con i recenti drammi sull’immigrazione come La storia di Souleymane, che hanno ritmi frenetici, nel tentativo di suscitare simpatia attraverso una narrazione drammatica: “Quei film rispecchiano le strutture del nemico. Non sono politici, ma confessionali. Chiedono trasparenza e testimonianze senza considerare la violenza strutturale della legislazione europea”, afferma George.

Realizzare immagini con, non di
La prospettiva adottata da George nel filmare i bambini è anch’essa anticonvenzionale: “Quando riprendo un bambino, non voglio ottenere un’immagine del bambino. La mia non è una visione dall’alto. Lavorando insieme a loro, ne scopro le reazioni alle conseguenze delle politiche europee”.
Il regista li riprende mentre litigano, fumano erba, frugano nella spazzatura alla ricerca di accendini e cibo, discutono di reati minori come il furto di telefoni o il borseggio e dei rischi legali per la loro futura cittadinanza europea. Non per renderli affascinanti, ma per rivelare i calcoli precari che devono fare per sopravvivere.
Senza voler essere didascalico, il film decostruisce l’associazione tra infanzia e vittimismo, mostrando invece come gli atti di sopravvivenza quotidiana siano gesti di resistenza: “Nei telegiornali le persone migranti sono descritte attraverso la metafora della catastrofe naturale. Il primo ministro francese ha persino parlato di un ‘cataclisma’, di ‘ondate’ di immigrazione. Nel mio film, metto in discussione questa metafora marittima: questi ragazzi non sono esempi di spaccature, ma correnti che si rifiutano di seguire il flusso principale. Trovano frontiere porose e, attraversandole, dimostrano che il potere occidentale è sempre stato frammentato. Vederli schernire la polizia, correndogli intorno, è una dimostrazione dell’assurdità del sistema”, dice George.
La maggior parte di loro viene dalle periferie di Marrakech e Fez. “Molti hanno vissuto in condizioni di forte povertà a causa della monarchia e della dittatura marocchina. Nel fuggire, sono consapevoli dei rischi. Attraversare i confini europei è già una decisione politica. Quando accendono un falò in strada, per scaldarsi o cucinare, il loro è un atto rivoluzionario”.
>> Trailer di Feuillets sauvages (Les brûlants, les obstinés, 2022), il primo capitolo della trilogia Nuit Obscure:
Giovanna d’Arco
In tutto Ain’t I a Child?, luminosi primi piani in bianco e nero inquadrano i giovani come figure sacre della notte. George li paragona a Giovanna d’Arco: “Giovanna viene usata come simbolo dalla destra alternativa, ma è anche l’incarnazione della giovinezza. Rifiuta la realtà che le viene imposta, creandone una propria. È impaziente, arde dello stesso fuoco che vedo nei giovani di questo film: il desiderio di distruggere il mondo e costruirne un altro”.
Il gioco diventa un modo per trasformare l’ostilità in fantasiose modalità di sopravvivenza. Nella sezione finale, Fantasia, Malik e il suo amico si esibiscono intorno a un falò, indossando maschere da supereroi e mantelli di carta stagnola: “È insieme realtà e fabulazione. Solo un bambino può trasformare un iPhone in un’astronave. Le maschere rappresentano il rifiuto di essere visti, un gioco ma anche uno scudo”, spiega George.
Ci sono anche momenti molto intimi, quando Malik parla con l’amico delle loro crude realtà, dei ricordi della traversata e della detenzione in Europa. In altri momenti, vediamo i bambini bruciarsi i palmi delle mani incendiando del gel igienizzante. “Questi atti diventano un modo per esprimere come si sentono bruciare dentro, sia in termini di dolore che di desiderio”.
Per George, ogni immagine deve essere dinamica, opposta, dialettica: “Il buio, la tenebra è sempre messo in ombra dall’oscurità del controllo, dall’oscurità biopolitica, ma anche dall’oscurità dell’insurrezione. È molto importante presentare le cose in modo dinamico, per sfuggire ai limiti delle definizioni fisse, del vittimismo. Voglio creare film che spingano a farsi delle domande. Delle rivoluzioni permanenti”.
>> Trailer di Aurevoir ici, n’importe où, il secondo capitolo della trilogia Nuit Obscure:
A cura di Catherine Hickley
Traduzione di Camilla Pieretti

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