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Concordia: appello, Schettino lasciò con gente a bordo

La Costa Concordia rovesciata su un lato dopo l'incidente del 13 gennaio 2012 Keystone/EPA/LUCA ZENNARO sda-ats

(Keystone-ATS) Quando “saltò su una lancia” Francesco Schettino “era consapevole che diverse persone si trovavano sul lato sinistro della nave o, comunque, quanto meno aveva seri dubbi in tal senso e decideva in ogni caso di allontanarsi in modo definitivo dalla Concordia”.

Così si legge nelle motivazioni dei giudici di appello di Firenze che hanno condannato il comandante della Costa Concordia a 16 anni e un mese il 31 maggio scorso.

“L’intenzione” di Schettino non era seguire la rotta del cartografo ma “navigare secondo il suo istinto marinaresco, più a ridosso dell’isola, confidando nella sua abilità”, si legge ancora nelle motivazioni della sentenza sul naufragio del Giglio.

La corte d’appello di Firenze ha confermato la sentenza di primo grado nei confronti del comandante della Costa Concordia, inflitta dal tribunale di Grosseto il 9 febbraio 2015. Il tribunale ha inflitto però una pena accessoria più pesante per Francesco Schettino: l’interdizione per 5 anni da tutte le professioni marittime.

Il 13 gennaio 2012 la Costa Concordia era in navigazione da Civitavecchia a Savona. Era una crociera nel mar Mediterraneo della compagnia Costa Crociere, un itinerario di successo tra la clientela, anche in mesi invernali. A bordo, tra passeggeri e membri dell’equipaggio, 4’229 persone.

L’urto fu alle 21:45 di sera. Si parlò di ‘inchino’ ma l’intenzione era di una navigazione parallela per ‘salutare’ l’isola e le sue luci. Le rocce squarciarono l’acciaio, la nave andò fuori controllo, scarrocciò nella baia davanti all’isola e poi, spinta da un vento di grecale e dalle correnti, si adagiò su un fianco davanti al porto del Giglio.

Nell’urto non morì nessuno, ma nelle ore successive 32 persone non uscirono vive dalla Concordia, bambini compresi. Gli altri si misero in salvo, graziati dalla vicinanza dell’isola che si mobilitò nei soccorso. I soccorsi proseguirono anche nei giorni successivi. Non tutti i dispersi morirono. A distanza di tempo furono trovati ancora vivi una coppia di giovani sposi coreani ed il commissario di bordo Manrico Giampedroni con una gamba fratturata.

Invece il comandante della nave Francesco Schettino venne fermato poche ore dopo il naufragio sull’isola. Fu portato in carcere. Scarcerato, da allora è impegnato a far valere una sua verità che – in base ai riscontri tecnici emersi nel tempo – gli fanno attribuire colpe importanti agli ufficiali che si trovarono in plancia di comando quella sera, che secondo lui non lo avvisarono per tempo della rotta verso l’isola, e al timoniere indonesiano che per incomprensioni linguistiche equivocò l’ultimo ordine decisivo, dato da Schettino in inglese, virando dalla parte opposta al necessario.

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