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GB: batosta per la May, oggi forma nuovo governo

Scommessa persa per la premier Theresa May Keystone/AP/ALASTAIR GRANT sda-ats

(Keystone-ATS) Scommessa persa per Theresa May: il suo Partito Conservatore ha sì vinto le elezioni di ieri in Gran Bretagna ma ha perso la maggioranza assoluta in parlamento. La premier però non si dimette e prepara un nuovo governo.

La May ha il sostegno del Partito unionista nordirlandese Dup e intende recarsi oggi alle 13.30 dalla regina per chiedere l’autorizzazione a formare il nuovo esecutivo. La nomina dei ministri potrebbe avvenire già in giornata.

Quando manca un solo seggio da scrutinare su 650, i risultati del voto politico in Gran Bretagna consegnano al partito conservatore di Theresa May 318 seggi in Parlamento, dove ne perde 12 e non raggiunge la maggioranza assoluta. Il Labour di Jeremy Corbyn ne ottiene 261 (29 seggi in più).

Manca il risultato nella circoscrizione di Kensington a Londra dove è testa a testa tra la candidata conservatrice, Victoria Borwick, e quella laburista, Emma Dent Coad, e il conteggio è stato sospeso. Il risultato è atteso più tardi nella giornata di oggi o addirittura domani.

Brusca frenata per gli indipendentisti scozzesi di Nicola Sturgeon che perdono 21 deputati fermandosi a 35. Dodici seggi ai Lib-Dem (+4), mentre gli unionisti nordirlandesi del Dup ottengono 10 seggi (+2) su cui i Tory potrebbero contare per formare un governo.

“Theresa May ha perso sostegno, ha perso seggi e ha perso voti, io credo sia abbastanza perché se ne vada”. Così il leader laburista Jeremy Corbyn, nel discorso tenuto dopo la rielezione a deputato nel suo collegio. Corbyn ha poi ripetuto che con il voto di ieri “la politica è cambiata” e ha aggiunto che la gente ha fatto capire “di non poterne più di austerity e tagli ai servizi pubblici”, ma “ha votato per la speranza”. Ha assicurato infine che il Labour insisterà nella sua battaglia ed è orgoglioso dello slogan: “Per i molti, non per i pochi”.

Anche dall’interno del Partito Conservatore sono arrivate le prime, velate richieste di dimissioni a Theresa May, a livelli record in termini percentuali, analoghe alle migliori prove di Margaret Thatcher, eppure disastrosamente sotto la maggioranza assoluta di che la premier si proponeva di consolidare in termini di seggi.

La premier “dovrebbe considerare ora la sua posizione”, ha detto Anna Soubry, deputata anti-Brexit e da tempo voce critica nei confronti di May. Ironico il commento di William Hague, ex leader Tory, che ha scritto: “Il nostro partito è una monarchia temperata dal regicidio”.

La Gran Bretagna “ha bisogno di un periodo di stabilità” e i Tory lavoreranno per garantirla, ha ribattuto dal canto suo la premier, che ha poi insistito sulla necessità di attuare la Brexit e di difendere “l’interesse nazionale”.

Il quadro che esce dal voto di ieri sembra rendere il Paese quasi ingovernabile e fa già immaginare nuove elezioni in tempi non troppo lontani. Ai Conservatori i numeri mancherebbero infatti anche sommando i ‘vassalli’ unionisti nordirlandesi del Dup. Mentre a Corbyn toccherebbe inventare una coalizione multicolore tanto risicata quanto fragile, dalla quale peraltro i Liberaldemocratici sembrano già volersi sfilare in partenza.

Il Regno Unito si è pronunciato del resto ieri per la terza volta in tre anni. Dopo il voto del 2015 e il referendum che ha decretato il divorzio da Bruxelles nel 2016, i sudditi di Sua Maestà erano stati richiamati alle urne dalla signora primo ministro – in un clima di sorveglianza blindata, sulla scia dei recenti attacchi di Manchester e di Londra – con un solo obiettivo: accrescere il suo peso in Parlamento per avere le mani libere al tavolo con l’Ue e su tutti i dossier che contano, dalle incognite sull’economia all’allarme terrorismo. Ma la meta, che raffiche di sondaggi trionfali avevano dato per scontata per settimane, non sembra essere stata affatto raggiunta.

Jeremy Corbyn, viceversa, ha motivo di esultare, per essere stato capace di condurre a 68 anni una campagna frizzante, con una versione rinnovata del suo programma da vecchio socialista, tornando a far guadagnare seggi al suo partito per la prima volta dal 1997, anno della prima vittoria elettorale di Tony Blair.

Un vero miracolo, per un uomo spesso sottovalutato, talora irriso e in genere osteggiato dall’establishment, non esclusa una parte della nomenklatura laburista. Ma capace, a dispetto di tutto, di risvegliare entusiasmi sopiti, fra i giovani e i meno fortunati. Entusiasmi che dalle piazze questa volta paiono essersi riversati anche nelle urne.

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