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Regioni di confine: rischio di dumping salariale

(Keystone-ATS) La revoca del tasso di cambio minimo per l’euro, esattamente sei mesi fa, ha messo sotto pressione il mercato del lavoro nelle regioni di confine. Il rischio di dumping salariale è tuttavia differente a seconda che ci si trovi in Ticino, Basilea o rive del Lemano.

Alla fine del 2014 il numero dei frontalieri in Svizzera si attestava a 291’000, pari al 5,8% della popolazione attiva totale, secondo i dati contenuti nell’11esimo rapporto sulla libera circolazione delle persone pubblicato il mese corso dalla Segreteria di Stato dell’economia (SECO). Il 52% proveniva dalla Francia, il 24% dall’Italia e il 20% dalla Germania. Con il 27%, il Ticino conta la proporzione maggiore rispetto alla forza lavoro complessiva, seguito da Ginevra (20%) e Basilea Città (19%).

La pressione sui salari si è accentuata con lo “shock della BNS”, visto che per le aziende si tratta di un metodo rapido ed efficace per compensare la competitività indotta dalla nuova situazione valutaria. In questo contesto alcune imprese hanno agito contro il “guadagno da cambio” realizzato dai frontalieri, di cui hanno tagliato fino a un quarto del salario nominale.

Gli effetti dell’apprezzamento del franco sul mercato del lavoro delle regioni di confine sono legati allo sviluppo economico di queste aree, ma anche di quelle appena oltre la frontiera, spiega Sara Carnazzi Weber, responsabile delle analisi macroeconomiche presso il Credit Suisse. Data l’importanza del mercato europeo e del turismo per l’economia ticinese, il cantone è particolarmente esposto alle conseguenze del franco forte.

Il direttore della Camera di commercio Cantone Ticino (CC-TI), Luca Albertoni, relativizza: “la maggior parte delle ditte ha adottato altre misure per evitare di dover toccare il personale”. Egli si dice ben più preoccupato dall’erosione della capacità d’investimento delle imprese, che a medio termine rischia di avere conseguenze sull’impiego.

Lo stimolo a lavorare dall’altra parte della frontiera è tanto più forte quanto è sfavorevole il mercato locale. In Lombardia il tasso di disoccupazione supera l’8% e il reddito mediano disponibile per abitante ammonta a 1’700 euro al mese. L’apprezzamento del franco ha rafforzato ulteriormente l’attrattiva del mercato del lavoro elvetico.

“In Svizzera tedesca la buona salute economica della Germania ha senza dubbio esercitato un influsso positivo, mentre in Ticino il cattivo andamento congiunturale dell’Italia potrebbe aver svolto un ruolo sfavorevole”, sostiene la SECO. La regione del Lemano rappresenta un’eccezione: lo stipendio dei frontalieri è in media superiore a quello dei residenti.

La Carnazzi Weber sottolinea che la struttura settoriale delle regioni è più importante che la loro ubicazione. Secondo l’esperta del Credit Suisse assistiamo a “una bipartizione dell’economia con un mercato interno robusto ed esportazioni in calo”. Per la SECO le disparità regionali dovrebbero pareggiarsi “col tempo”, a causa dell’elevata mobilità dei lavoratori e della flessibilità dei salari in Svizzera.

Resta che il Ticino è la regione con i maggiori divari salariali tra frontalieri e manodopera locale. Già alto al momento dell’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione delle persone nel 2002, lo scarto è aumentato costantemente, fino a raggiungere l’11,9% nel 2012. Come se non bastasse, nonostante il livello di qualifica dei frontalieri sia migliorato “la dinamica degli stipendi si è indebolita dal 2008 e viene perfino constatata una tendenza al ribasso”, rileva la Carnazzi Weber.

Per lottare contro il rischio di dumping salariale, dal 2004 sono state introdotte misure d’accompagnamento, rafforzate lo scorso anno in seguito all’accettazione alle urne dell’iniziativa popolare contro l’immigrazione di massa. Secondo la SECO la loro attuazione in Ticino nel quadro dell’impiego dei frontalieri “riveste un’importanza essenziale”.

In tale contesto le formazioni politiche di ogni parte chiedono la realizzazione di contingenti per limitare l’afflusso di frontalieri, che a loro dire trainano verso il basso le remunerazioni. Albertoni ricorda anche che i ticinesi hanno accettato il mese scorso un’iniziativa volta a fissare salari minimi per settore. Il direttore della CC-TI considera sufficienti le attuali misure di accompagnamento e si dice favorevole alla realizzazione di contratti collettivi di lavoro “laddove hanno senso e possano essere applicati”.

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