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Singapore: morto Lee Kuan Yew, il padre della patria

(Keystone-ATS) Abusare dell’etichetta di “padre della patria” è facile.

Ma nel caso di Singapore e del suo ex primo ministro Lee Kuan Yew, morto oggi all’alba di polmonite all’età di 91 anni, l’espressione non potrebbe essere più meritata. “Dal terzo mondo al primo”, come intitolò una sua autobiografia: la storia della città-stato dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna è anche quella del suo storico leader. Ammirato, criticato, ma comunque indiscusso artefice dell’incredibile trasformazione di Singapore da sottosviluppato avamposto tropicale a centro di modernità ed efficienza nell’Asia.

Discendente di quarta generazione di una famiglia di immigrati cinesi, come gran parte degli abitanti dell’isola, Lee ha plasmato Singapore a sua immagine e somiglianza: una fusione di dinamismo asiatico e pragmatismo britannico, paternalismo benevolo e facilità nel fare business, sviluppatasi sotto le direttive e il controllo del suo manovratore. Un territorio grande come la metà del comune di Roma, senza risorse naturali, che neanche due secoli fa era un paludoso villaggio di pescatori, diventò sotto Lee una delle prime “tigri asiatiche”: un centro portuale sulla rotta tra Europa ed Estremo Oriente, un hub finanziario per la regione, un’oasi senza corruzione per le aziende straniere desiderose di mettere piede in Asia.

Un’ascesa che negli anni Quaranta del secolo scorso sarebbe stata impossibile da prevedere, anche per l’allora giovane Harry Lee Kuan Yew. Formatosi nelle scuole britanniche della colonia, per poi completare gli studi da avvocato a Cambridge, Lee entrò in politica (abbandonando il nome Harry) ed emerse come leader nella fase finale della presenza britannica. Dopo un periodo di autogoverno vennero due anni di unione con l’adiacente Malaysia. Un progetto che naufragò nel 1965 con l’espulsione di Singapore – in gran maggioranza cinese, in un’unione che voleva concedere privilegi alla maggioranza malay – da parte del Parlamento malese. Lee la visse come una tragedia; ma da lì, ebbe mano libera.

Il “modello Lee” – poca ideologia, tanto buon senso e duro lavoro – fece decollare l’economia della nuova repubblica. Ma aveva anche un lato oscuro: la sistematica persecuzione del dissenso e dei rivali politici, nonché una censura mediatica capillare. Uno stato autoritario e soffocante, da molti definito “senz’anima”. L’Occidente da un lato ammirava tale sviluppo frenetico, dall’altro derideva Singapore per il suo consumismo, la sua popolazione apolitica, le manie d’ordine e i mille divieti (come quello di masticare chewing-gum). Alla città-stato furono appiccicate etichette come “Svizzera d’Asia” oppure “Disneyland con la pena di morte”, come la definì un famoso articolo di “Wired” dei primi anni Novanta.

Lee guidò Singapore ininterrottamente fino al 1990. Ma ha sempre mantenuto una posizione di influenza anche dietro le quinte, tanto più che dal 2004 il premier è suo figlio Lee Hsien Loong. Elevato al rango di “primo ministro mentore”, il padre della città-stato è rimasto attivo in politica fino al 2011, quando il suo Pap (Partito di azione popolare) vinse le elezioni col minore scarto di sempre.

Oggi Singapore è un Paese ricco al centro di un Sud-est asiatico in rampa di lancio. Ma mostra segni di una crisi di identità, con una classe media che vede ridursi il suo potere d’acquisto ed è ostile a un’immigrazione di cui la città-stato ha disperato bisogno, a causa di un bassissimo tasso di natalità. Timide aperture democratiche hanno dato spazio a nuove energie, ma hanno anche prodotto un certo disorientamento, evidenziando le differenze tra le vecchie generazioni fedeli a Lee e i giovani. Il “modello Lee” sembra aver esaurito il suo corso. E d’ora in poi, Singapore dovrà trovare una nuova direzione senza l’uomo che gliel’ha tradizionalmente data.

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