Birmania: la visita di Suu Kyi nello Stato dei Rohingya

(Keystone-ATS) Una visita di poche ore, poco più che simbolica: la leader birmana Aung San Suu Kyi è andata oggi per la prima volta nello Stato Rakhine, visitando anche una delle aree quasi completamente svuotate di musulmani Rohingya nell’esodo verso il Bangladesh.
Assediata dalle critiche internazionali per la gestione di una crisi che l’Onu ha definito “un esempio da manuale di pulizia etnica”, Suu Kyi insiste sulla priorità del ritorno alla stabilità, e il suo breve viaggio va inquadrato in questa prospettiva.
Il premio Nobel per la Pace è arrivata nella capitale statale Sittwe in mattinata, per poi ripartire a bordo di un elicottero militare verso il distretto di Maungdaw. Proprio qui, a fine agosto, attacchi coordinati da parte del gruppo ribelle “Esercito di salvezza dei Rohingya dell’Arakan” (Arsa) avevano ucciso 12 membri delle forze di sicurezza, scatenando la controffensiva dell’esercito birmano che ha spinto 600mila Rohingya a scappare oltre confine.
Suu Kyi ha visitato alcuni insediamenti abbandonati, in una zona dove secondo Human Rights Watch l’esercito ha bruciato almeno 288 villaggi. “La Signora”, com’è chiamata, ha anche brevemente incontrato alcuni leader religiosi locali, in una delle poche comunità musulmane rimaste nell’area.
Suu Kyi non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali. Il suo viaggio, ampiamente rilanciato dalla tv statale, aveva l’evidente obiettivo di mostrare che il governo è tornato a controllare la situazione. Suu Kyi, che è stata accompagnata da un magnate in passato colpito dalle sanzioni statunitensi per i suoi legami con l’ex giunta militare, ha più volte posto l’enfasi sull’esigenza di promuovere lo sviluppo economico nel Rakhine (il secondo Stato più povero del Paese), anche per i benefici alla convivenza tra la maggioranza buddista e quella musulmana.
Due giorni fa, un suo portavoce aveva annunciato l’intenzione di avviare un piano di rimpatrio dei rifugiati Rohingya, un proposito già menzionato da Suu Kyi in un discorso a settembre. Tali parole appaiono però orientate più che altro a attenuare le feroci critiche della comunità internazionale, con poco di concreto.
I buddisti del Rakhine hanno ribadito di non volere i Rohingya anche se il governo decidesse di farli tornare. In ogni caso, pochissimi Rohingya – sistematicamente discriminati e privati della cittadinanza – possono provare il loro diritto di residenza, e molti hanno perso i loro documenti nella precipitosa fuga.
In definitiva, le due visioni della crisi – quella internazionale e quella birmana – sono incompatibili. La più grave crisi umanitaria in Asia degli ultimi decenni è vista come pulizia etnica all’estero, ma come una sacrosanta operazione contro “terroristi” da parte della società birmana, in un clima di nazionalismo e di risentimento verso le critiche straniere alimentato da tutti i media nazionali.
Questi ultimi danno ampio spazio ai buddisti del Rakhine uccisi dai Rohingya, e accusano i musulmani di aver dato fuoco alle proprie case; mentre i rifugiati Rohingya in Bangladesh sono stati ignorati dalle autorità birmane, il ristretto numero di rifugiati Rakhine riceve ampi aiuti statali. La stabilità tanto auspicata da Suu Kyi, al momento, è un obiettivo che appare ancora lontano.
Nei prossimi giorni il segretario di Stato Usa Rex Tillerson effettuerà la sua prima visita in Birmania dall’inizio della crisi dei Rohingya. Tillerson sarà nella capitale Naypyitaw il prossimo 15 novembre, per consultazioni con leader e rappresentati locali, dopo aver accompagnato il presidente Donald Trump nel suo viaggio in Asia al via nelle prossime ore.