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Eritrea: l’esodo di chi non ha più nulla da perdere

Giovani eritrei nel campo profughi di Mai-Aini, nel nord dell'Etiopia. Reuters

In fuga dal regime di Isaias Afewerki, ogni mese migliaia di giovani eritrei sfidano i cecchini per attraversare la frontiera con l'Etiopia. Il viaggio verso l'Europa comincia da qui. Dai campi profughi del Nord ai sobborghi di Addis Abeba, c'è chi si prepara ad attraversare deserto e Mediterraneo e chi aspetta da anni un biglietto per la Svizzera. swissinfo.ch è andata ad incontrarli.

Mebrathon ci ha dato appuntamento in un parco alla periferia della città. Il taxi si fa largo tra gli operai sui cantieri e i mendicanti che tendono la mano per racimolare qualche birr.

Con i suoi oltre tre milioni di abitanti, Addis Abeba è in preda alla febbre edilizia: i vecchi quartieri lasciano spazio ad alberghi, case residenziali e grandi magazzini. Nel cuore della capitale etiope, a 2’330 metri sopra il livello del mare, si racchiude l’ambizione di sviluppo di un intero paese, che per il 30 per cento vive ancora sotto la soglia della povertàCollegamento esterno.

Per i rifugiati eritrei, Addis è però soprattutto una città straniera, talvolta nemica, un luogo di passaggio e di attesa. Il telefono squilla: è Mebrathon. «Meglio incontrarci in un parcheggio. Qui c’è troppa gente, non mi sento sicuro».

Di origine eritrea, Mebrathon ha 39 anni e lo sguardo smarrito. Parla sottovoce. «Sono arrivato in Etiopia un anno e mezzo fa, ma dopodomani parto. Non ce la faccio più a stare con le mani in mano». Ha già preparato il suo zainetto: un paio di jeans e una t-shirt, una bibbia e qualche soldo. Un passatore lo porterà in Sudan, un altro in Libia. Poi aspetterà un barcone per attraversare il mare e raggiungere l’Italia. Ci vorranno mesi.

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Un intero popolo ai lavori forzati

Stando all’Alto commissariato ONU per i rifugiati (HCR), ogni mese oltre 4mila eritrei varcano illegalmente il confine con l’Etiopia o col Sudan, in fuga dal regime totalitario di Isaias Afewerki. Il primo e unico presidente dell’Eritrea indipendente ha militarizzato la società, con la retorica di una situazione di “né guerra né pace” con l’Etiopia.

Le ragioni della fuga

Dalla sua indipendenza, nel 1993, l’Eritrea è guidata col pugno di ferro dall’ex leader rivoluzionario Isaias Afewerki, 59 anni, formatosi nella Cina maoista. Il suo regime è considerato tra i più repressivi e paranoici al mondo; il paese tra i dieci più poveri. Nel giugno 2014, il Consiglio ONU per i diritti umani Collegamento esternoha deciso di aprire un’inchiesta sulla situazione in Eritrea, una misura adottata finora solo per la Siria e la Corea del Nord.

Tutti i cittadini, uomini e donne, devono servire nell’esercito o in un’impresa statale a durata indeterminata, al pari dei lavori forzati. Fuggitivi e disertori sono considerati nemici del popolo: chi viene preso, paga con la prigione e a volte con la vitaCollegamento esterno.

Mebrathon è stato arruolato nell’esercito a 16 anni. «All’inizio ero di guardia al confine con l’Etiopia. Avevamo l’ordine di sparare a chiunque cercasse di varcare il confine. Lavoravo giorno e notte per 450 naktfa, circa 30 dollari al mese». La prima volta che ha cercato di scappare aveva poco più di trent’anni. Ma i soldati l’hanno preso, messo in una cella sotterranea e torturato. Mebrathon si accende una sigaretta, i polsi ancora segnati dalle manette.

La seconda fuga lo porta ad Asmara, la sua città natale, dove trascorre tre anni nell’illegalità. «Non dormivo mai due notti nello stesso posto. Lavoravo come cameriere, con documenti falsi. Ma quando l’esercito ha iniziato a interrogare la mia famiglia e la città è stata completamente militarizzata, nascondermi era diventato troppo pericoloso e così ho cercato un passatore per andare in Etiopia». La traversata gli è costata 2’000 dollari pagati dalla sorella negli Stati Uniti, per diciotto ore di marcia tra posti di blocco e cecchini.

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Rifugiati, oltre il confine etiope

Da Addis Abeba ci spostiamo a nord, nella regione storica del Tigrai. Siamo a pochi chilometri dalla linea di confine, che dal 1998 è teatro di conflitto tra l’Etiopia e l’Eritrea. In questa terra semiarida, dove il sole non lascia vie di scampo, i profughi trovano un primo, temporaneo rifugio. Una volta attraversato il confine vengono accompagnati dalle truppe etiopi fino al centro di registrazione di Endabaguna.

Prima tappa: l’Etiopia

La scelta dell’Etiopia o del Sudan come destinazione di fuga è spesso dettata dalla vicinanza geografica o culturale e da vincoli famigliari. Negli ultimi anni, tuttavia, la frontiera sudanese è diventata sempre più pericolosa: gli eritrei rischiano di essere rimpatriati con la forza o di essere sequestrati nei campi e venduti ai beduini. In molti optano dunque per l’Etiopia, anche se ciò comporta una tappa in più per chi è diretto in Europa. 

Con oltre 620mila rifugiati registratiCollegamento esterno, di cui 100mila eritrei, l’Etiopia porta avanti una politica migratoria delle «porte aperte», ci spiega Michael Owor, responsabile della sezione del Tigrai dell’HCR. «Nessuno viene mandato indietro». Una politica certo generosa, ma che si scontra con la macchina burocratica e poliziesca dello Stato etiope, con la mancanza di fondi e con le limitazioni imposte alle organizzazioni non governative, praticamente assenti nei campi del Nord.

Arriviamo a Endabaguna all’ora di pranzo. Appena entrati, siamo presi in custodia dalle autorità. Sono loro che gestiscono i campi: niente fotografie, niente interviste ai rifugiati. La nostra presenza non è particolarmente benvenuta. Diverse centinaia di eritrei sono seduti sotto una tettoia, in attesa della loro razione di cibo. Nel centro non ci sono vere e proprie strutture di accoglienza: qui i profughi dovrebbero fermarsi soltanto per un paio d’ore, il tempo di una prima audizione. Ma i campi sono pieni e a volte il centro di Endabaguna funge da posteggio per settimane.

Poco più in là, in uno stabile desolato, un ragazzino dorme per terra. Ha varcato il confine da solo, qualche giorno fa. Il suo non è un caso isolato: dall’inizio dell’anno, l’HCR ha registrato un forte aumento del numero di minorenni non accompagnati, in Etiopia come in Sudan. 

Nei campi, tra sete di acqua e di vita

Seguendo la rotta dei migranti, ci spostiamo verso il campo di Hitsats, aperto lo scorso anno. È qui che solitamente vengono portati i nuovi arrivati. La strada sterrata s’inerpica su per le montagne e poi di nuovo giù attraverso i villaggi contadini, dove le case sono ancora costruite con tronchi di legno.

Il costo del viaggio

  • Eritrea – Etiopia (Sudan): 1’500 – 2000 dollari
  • Etiopia – Sudan: 1’500 dollari
  • Sudan – Libia: 1’500 dollari
  • Libia – Italia: 2’000 – 2’500 dollari

Per pagare i passatori, i migranti eritrei fanno spesso capo alle risorse di famigliari e amici, per lo più residenti all’estero. Molti sono costretti a indebitarsi oppure a prolungare la durata del viaggio, lavorando sui cantieri in Libia o in Sudan. 

Con una popolazione di circa 20mila rifugiati, Hitsats potrebbe essere considerata una cittadina. Ma se negli altri campi esistono per lo meno delle strutture – un ambulatorio, una scuola, un negozietto -, qui mancano pure i servizi di base. «A volte non c’è sufficiente acqua potabile ed energia per tutti. La regione è povera di risorse naturali e queste devono essere condivise tra i profughi e le comunità locali. Mancano i mezzi finanziari necessari per dare una risposta adeguata», afferma Michael Owor, responsabile della sezione del Tigrai dell’HCR.

Al riparo da sguardi indiscreti, Danait ci accompagna nella sua tenda, che condivide con una decina di rifugiati, uomini inclusi. Seduta sul materasso, la sua gamba si muove di continuo, in modo nervoso. Ha 23 anni e il fisico minuto di una ragazzina. «Nei campi siamo come vegetali. Ci svegliamo non appena sorge il sole. Facciamo colazione e ci sediamo a parlare del nostro futuro. Sempre le stesse domande, le stesse storie. Al pomeriggio andiamo a zonzo per il villaggio, fino all’ora di cena. Poi aspettiamo di dormire, un occhio sempre aperto».

Con un leggero accento lombardo, Danait ci racconta di aver studiato alla scuola italiana di Asmara e di aver ricevuto una borsa di studio dall’università di Roma. Ottenere un visto d’uscita dall’Eritrea è però impossibile per chi è giovane, in buona salute e abile al servizio militare. Anche lei ha vestito l’uniforme. Come tutti gli adolescenti eritrei, Danait ha seguito l’ultimo anno di scuola al centro di addestramento militare di Sawa, tra matite e fucili. Poi è stata impiegata come domestica: «Il sergente voleva di più di una semplice cena… così sono scappata». Danait è nel campo soltanto da pochi mesi; il suo amico Teddy da anni. «Ho cercato di raggiungere Israele, ma sono stato sequestrato nel Sinai e riportato qui».

Un volto accigliato si affaccia sotto la tenda. Il responsabile del campo ci invita a seguirlo nel suo ufficio: «lì potremo discutere con più tranquillità», dice. E avere il controllo della situazione.

I rifugiati che abbiamo incontrato non si fidano delle autorità, accusate di ricevere bustarelle, e nei campi non si sentono sicuri. «Girano storie di donne violentate e profughi rapiti. La sera non esco mai da sola», afferma Danait. Storie di cui l’HCR è a conoscenza, ma che relativizza. Più tardi, il responsabile regionale delle autorità migratorie nazionali (ARRA) smentirà l’accusa di corruzione, pur riconoscendo che garantire la sicurezza nei campi è particolarmente difficile. «Data la forte presenza di giovani maschi, soli, i casi di violenza sono maggiori rispetto ai campi che accolgono prevalentemente famiglie con bambini». 

Restare in Etiopia non è un’opzione

Per la maggior parte dei rifugiati eritrei, l’Etiopia non è una destinazione privilegiata, ma una tappa obbligata verso una migrazione secondaria. Da un lato perché la crisi in Eritrea si trascina ormai da decenni e l’assenza di prospettive di cambiamento esclude l’ipotesi di un ritorno. Dall’altro perché in Etiopia faticano a trovare degli sbocchi e questi sono spesso molto meno allettanti dell’immagine idealizzata che hanno dell’Europa. 

Destinazione: Europa

Da quando Israele ha costruito un muro di 230 km al confine con l’Egitto, rendendo praticamente invalicabile la sua frontiera, la rotta del Mediterraneo è la più utilizzata dai migranti eritrei. Il numero di sbarchi lungo le coste italiane è aumentato in modo considerevole anche in seguito al caos che regna in Libia e all’operazione Mare Nostrum, lanciata nell’ottobre 2013 dall’Italia per soccorrere i migranti in mare.

«I giovani di vent’anni sognano di avere una famiglia, un lavoro, un diploma. È comprensibile che cerchino di partire dai campi, perché qui non hanno futuro. D’altronde nei campi il ruolo dell’HCR è di dare una risposta puntuale a un’emergenza umanitaria. Nulla di più», afferma Ramsey Bryant, responsabile della sezione protezione in seno all’HCR del Tigrai.

In Etiopia, i rifugiati non hanno libertà di movimento. Lo Stato autorizza chi ha gravi problemi di salute a vivere in città e dà la possibilità a una manciata di giovani di proseguire gli studi. Un programma destinato soltanto agli eritrei, in virtù di una cultura comune che ne facilita – forse – l’integrazione. Sono poco più di 300 a beneficiarne, lo 0,3 per cento dei 100mila rifugiati registrati.

Chi non rientra in questa categoria, per lasciare i campi deve dimostrare di avere i mezzi sufficienti per mantenersi. Di solito, grazie ai soldi inviati dai parenti all’estero. È il caso di Jamila* e Sophia*, fuggite dall’Eritrea per raggiungere il fratello Asmaron* in Svizzera. Le incontriamo al nostro ritorno nella capitale, due ragazzine sperdute in una città troppo grande. 

Il sogno di volare in Svizzera

Jamila era ancora minorenne quando ha attraversato la frontiera, un anno fa. Da allora non ha più lasciato la mano della sorella, Sophia. È lei a dirigere l’incontro, sull’attenti, l’ombra del sospetto disegnata sul volto. «Come facciamo a sapere che non venite da parte dell’ambasciata?». Il tempo di un caffè e l’atmosfera si rilassa. Su un fornellino a carbonella, Jamila riscalda le verdure del giorno prima e una pannocchia. Poi ci tende un boccone con le mani, avvolto nell’injera, il caratteristico pane di farina di teff. Un segno di benvenuto che va ricambiato due volte. Così vuole la tradizione.

Pochi oggetti, per un grande desiderio di normalità. swissinfo.ch

In questa stanza di tre metri per quattro è racchiuso tutto il presente di Jamila e Sophia. Tirano avanti con 100 dollari al mese: «Sono pochi, ma cerchiamo di farceli bastare». Nella capitale non conoscono quasi nessuno; non parlano né inglese né amarico, la lingua ufficiale dell’Etiopia. «All’inizio avevamo paura a uscire, ma ora cominciamo per lo meno a orientarci nel quartiere e a dire qualche parola».

Il peso della diaspora

La popolazione eritrea è stimata a 5 milioni: almeno un quinto ha trovato rifugio all’estero, in particolare in Sudan, Etiopia, Israele e in Europa. La Svizzera – con la Svezia, la Norvegia, la Germania e i Paesi Bassi – è tra le destinazioni privilegiate dagli eritrei nel Vecchio Continente. Nei primi sette mesi del 2014Collegamento esterno, 4’043 eritrei hanno depositato una domanda d’asilo. Negli ultimi 5 anni, il 65% circa ha ottenuto lo statuto di rifugiato. E ciò malgrado la soppressione della diserzione e dell’obiezione di coscienza dalla lista dei motivi di asilo, approvata dal popolo il 9 giugno 2013.  

Fuggite dall’Eritrea nell’agosto del 2013, Jamila e Sophia stanno aspettando da mesi una risposta dell’Ufficio federale della migrazione. Il fratello ha depositato una domanda di ricongiungimento famigliare. «Sogniamo di poter studiare e di poter aiutare i nostri genitori, in Eritrea».

Le ragazze non sanno a che punto è la loro procedura. Sono nervose, impaurite. Non sanno che lui, Asmaron, dovrà dimostrare alle autorità di avere un lavoro e un appartamento adeguati per poterle accogliere e mantenere. Condizioni non sempre facili da soddisfare per chi vive in Svizzera con lo statuto di rifugiato o con l’ammissione provvisoria.

Pochi isolati più in là incrociamo Senait, 26 anni. Qualche settimana fa ha ricevuto una chiamata dall’ambasciata svizzera: la sua richiesta d’asilo è stata respinta. Il marito, da diversi anni in Svizzera, ha tentato di rassicurarla. «Mi ha detto che farà ricorso. Non vuole che parta per la Libia perché è troppo pericoloso. Ma cosa faccio qui da sola? Se riesco ad attraversare il mare ed arrivare in Svizzera, non mi manderanno indietro… Vero?».

Chi torna e chi parte

I migranti sanno ciò che li aspetta sulla strada verso l’Europa. I naufragi in mare, le scorte d’acqua che non bastano per attraversare il deserto, le prigioni in Libia o il rischio di essere sequestrati in Sudan e venduti ai beduini del Sinai. Come Milena e i suoi quattro amici. «Abbiamo trascorso più di un anno rinchiusi in una prigione. Mi hanno picchiata e violentata». Lo dice così, guardandoci dritto negli occhi.

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Il reportage è stato realizzato nell’ambito di eqda.chCollegamento esterno, un progetto di scambio tra giornalisti svizzeri e dei paesi in via di sviluppo.

Stando alle organizzazioni a difesa dei diritti umani, dal 2009 sarebbero decine di migliaiaCollegamento esterno i migranti sequestrati. Per la maggior parte eritrei. La prassi è sempre la stessa: «Mentre ci torturavano, chiamavano i nostri famigliari per chiedere loro un riscatto». La cifra varia dai 30 ai 40mila dollari, che la gente racimola tra amici, parenti e strozzini. Chi sopravvive, finisce spesso nelle prigioni egiziane in attesa di essere espulso, nuovamente, in Etiopia.

Senait ha sentito più volte questo tipo di racconto. Eppure la sua decisione l’ha ormai presa. Due giorni dopo la nostra partenza, è partita anche lei. Prima tappa: il Sudan. Da lì organizzerà il resto del viaggio. «La cosa più difficile è trovare un passatore di fiducia. Ma ho chiesto in giro ed ho già qualche nome». Le chiediamo se non ha paura. «Certo, che ho paura. Ma non ho più nulla da perdere e la mia vita è ormai nelle mani di Dio».

*Nomi fittizi

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