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La neutralità svizzera durante la Seconda guerra mondiale continua a far discutere

Christophe Farquet

Dall'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, la politica estera svizzera e la sua storia sono tornati temi rilevanti. Tuttavia, una parte di questo passato resta ignorata: il periodo della Seconda guerra mondiale. Dopo i dibattiti sulla Commissione Bergier all'inizio degli anni Duemila, la discussione sul ruolo della Svizzera durante quest'epoca cruciale è andata scemando. Per ravvivare il dibattito, lo storico Christophe Farquet fornisce possibili risposte a tre domande fondamentali ancora in sospeso.

Perché la Svizzera non è stata invasa dalla Germania nazista?

È ormai di buon gusto puntare i riflettori sui servizi economici forniti dalla Svizzera alla Germania nazista per spiegare la salvaguardia dell’indipendenza della Confederazione. Al vecchio mito del Ridotto nazionale (il dispositivo difensivo dell’esercito dal luglio del 1940 all’autunno del 1944, ndr.) si contrappone un’altra storia, più alla moda, quella dell’oro nazista acquistato dalla Banca Nazionale Svizzera (BNS) o dei crediti commerciali concessi dalla Confederazione che avrebbero avuto un ruolo decisivo nel dissuadere Hitler dall’invadere il Paese.

Questa visione è una caricatura che la Commissione Bergier stessa non ha mai corroborato in questi termini. Un esame della cronologia basta per dimostrarlo. Le transazioni d’oro della BNS restarono minime fino al secondo semestre del 1941 e il famoso credito di clearing, che la Germania utilizzò per acquistare armi in Svizzera, diventò esso stesso davvero significativo solo a partire dall’accordo del luglio 1941. In altre parole, nel solo momento in cui un’invasione era realmente concepibile, ovvero nell’estate del 1940, le transazioni economiche potevano avere solo un effetto limitato sui rapporti germano-svizzeri. Il dissolversi della minaccia, nell’autunno di quello stesso anno, non fu per nulla causata da fattori economici. A parte qualche esempio isolato, sempre presentati e messi in luce senza una critica rigorosa delle fonti, i documenti d’archivio contraddicono l’idea di un impatto determinante di questi affari sulle decisioni dei dirigenti militari tedeschi e, a maggior ragione, di Hitler stesso.

Piuttosto che l’influenza del Ridotto nazionale o gli acquisti d’oro, sono in primo luogo le strategie militari dell’Asse a spiegare la non invasione. Dopo la vittoria sulla Francia, Hitler cercava di preservare le truppe per le future operazioni in direzione della Gran Bretagna e soprattutto, dell’URSS – una motivazione che è anche all’origine del mantenimento della “Zona libera” in Francia. Quanto all’Italia, era poco incline, dopo la scarsa prestazione dell’esercito contro la Francia, a proseguire la guerra alle porte delle sue frontiere temendo, oltretutto, gli effetti negativi di un’espansione tedesca sul territorio svizzero. Anche in questo caso, le relazioni economiche rappresentavano tutt’al più un aspetto secondario per il mantenimento dell’indipendenza elvetica. Lo stesso vale per il Ridotto nazionale, il cui effetto dissuasivo si fondava soprattutto sul fatto che, in caso di invasione, avrebbe rappresentato una minaccia sulle tratte di transito ferroviario alpino tra la Germania e l’Italia.

Resta vero che ogni ragionamento controfattuale sulle cause della non invasione contiene una parte di speculazione, considerando oltretutto che l’instabilità psicologica di Hitler avrebbe potuto sfociare in un’invasione in ogni momento a causa di un semplice colpo di testa. Ma c’erano davvero poche possibilità che quest’eventualità si realizzasse per delle ragioni economiche: il Führer non si preoccupava delle transazioni d’oro, ottenendo risorse più importanti dai Paesi invasi.

A che punto la neutralità ha influenzato la politica estera svizzera?

La naturalità è essenziale per capire la politica estera svizzera tra il 1933 e il 1945.  La Svizzera, va ricordato, non si mostrò affatto favorevole alla Germania nazista negli anni che hanno preceduto la guerra. Per una ragione evidente: contrariamente al periodo precedente alla Prima guerra mondiale, esisteva solo un’unica reale minaccia militare per il suo territorio, ed era naturalmente quella rappresentata dal Reich. Per di più, a causa della politica di autarchia condotta dalla Germania, le relazioni economiche erano anch’esse lungi dall’essere armoniose tra i due Paesi. Da parte dei dirigenti nazisti, non ci si può sbagliare: la Svizzera era considerata, in quanto democrazia liberale, un Paese vicino agli Alleati.

Ciò non toglie che la Confederazione, a partire dalla metà degli anni Trenta, optò per una politica di riequilibro tra i due campi. Questa strategia si iscriveva in una lunga tendenza di relazioni estere e intendeva utilizzare la neutralità per evitare di venir coinvolta in un nuovo conflitto mondiale. È in questa luce che va letta una serie di gesti diplomatici effettuati in direzione dell’Asse tra il 1936 e il 1939, come il “ritorno alla neutralità integrale” del maggio 1938, con cui la Svizzera decise di smettere di applicare il sistema di sanzioni della Società delle Nazioni. Questa fase di riorientamento si verificò dopo l’uscita dell’Italia dall’organizzazione ginevrina in seguito alle sanzioni inflittele a causa dell’invasione dell’Etiopia; di fatto gli svizzeri scommisero anche su una distensione delle relazioni con Mussolini, che avrebbe potuto dissuadere Hitler dall’invadere il Paese.

Si tratta quindi di una scelta di neutralità che andava oltre alla semplice dimensione militare prima della guerra. Questo orientamento sarebbe proseguito durante il conflitto. Se le relazioni economiche non furono completamente bilanciate fino alla sconfitta francese, era perché pendevano in favore degli Alleati, verso cui partì la quasi totalità delle esportazioni di armi elvetiche fino al maggio 1940. Una svolta avvenne, si sa, nell’estate del 1949, quando la Svizzera era circondata dalla Germania e dai suoi alleati: senza un gran margine di manovra, la Confederazione riorientò le sue relazioni a favore del Reich. In una mescolanza di costrizione e opportunismo, questa direzione si sarebbe accentuata, soprattutto in ambito economico, nel corso dei due seguenti anni.

Sarebbe però sbagliato credere che la neutralità scomparve dalla visione dei dirigenti svizzeri, che non solo desideravano mantenere il Paese fuori dal conflitto, ma cercavano anche di arginare le violazioni ai principi del diritto internazionale. Sul lungo termine, la neutralità restava l’orizzonte preferito dalla maggior parte di loro in ambito di politica estera. Non appena la situazione cominciò a volgere in modo sfavorevole per la Germania, la Confederazione riequilibrò progressivamente i suoi rapporti internazionale prima che, alla fine della guerra, lungi dal mettersi nel solco della potenza americana, la Svizzera riprese una politica di neutralità stretta che sarebbe durata fino alla Guerra di Corea.

Quante persone ebree sono state respinte alle frontiere svizzere?

Malgrado le molte pubblicazioni sul destino dei rifugiati ebrei in Svizzera, non disponiamo al momento del dato più essenziale su questa problematica: il numero delle persone respinte al confine elvetico. Il flusso era tale che le stime riportate nei manuali scolastici variano anche di dieci volte l’una dall’altra. La Commissione Bergier ha le sue responsabilità. Anche se suoi lavori d’archivio si sono concentrati sui rapporti economici tra la Germania nazista e la Svizzera, ha comunque consacrato due volumi su 25 a questa domanda e un capitolo intero nel rapporto finale. Di conseguenza, era evidente che il dibattito pubblico si sarebbe focalizzato su questo aspetto del lavoro. Per quel che riguarda la statistica più sensibile, la Commissione si è accontentata di riportare, con una formulazione vaga e ambigua, i risultati molto ipotetici di una precedente inchiesta. Quindi la sua constatazione di circa 20’000 civili respinti, di cui “una grande parte” ebrei, è stata bersaglio di critiche non prive di legittimità.

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Degli storici criticano il rapporto Bergier

Questo contenuto è stato pubblicato al La questione del respingimento degli ebrei alle frontiere svizzere durante la Seconda guerra mondiale continua a dividere gli storici.

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I lavori più recenti, come il libro La fuite en Suisse (La fuga in Svizzera) della storica Ruth Fivaz-Silbermann tendono, in effetti, a rivedere al ribasso il numero di persone ebree respinte alla frontiera elvetica.  Tuttavia, la ricerca riguarda solo il confine ginevrino. E quando la ricercatrice azzarda una serie di estrapolazioni per arrivare a un totale di circa 4’000 ebrei respinti, lo minimizza, forse per smarcarsi dalla Commissione Bergier. La cosa è ancor più evidente quando Serge Klarsfeld parla, nella prefazione del libro, di una stima di 3’000. Sulla base delle ricerche attuali, sembrerebbe che la cifra si debba piuttosto avvicinare alle 5’500 persone. Si tratta di una proposta approssimativa che meriterebbe di essere verificata tramite ricerche più approfondite.

I dossier d’archivio esistono e le risorse di molti di essi non sono ancora esaurite. Basterebbe ammettere che la questione non è ancora chiusa, e riaprirla.

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