Prospettive svizzere in 10 lingue

Renzo Piano: “Un luogo per fertilizzare le menti”

Tre le colline del Centro Paul Klee, tre anni la durata del cantiere swissinfo.ch

Per uno degli artisti più prolifici e profondi della modernità, Renzo Piano ha concepito un edificio che gioca a nascondino con la natura.

La luce, la leggerezza e la crescita quasi organica dalle zolle di terra sono gli elementi della poetica di Klee che hanno ispirato il grande architetto italiano.

swissinfo: La Svizzera è un paese piccolo ma con una grande tradizione architettonica. Cos’ha pensato quando il suo studio è stato scelto per il Centro Paul Klee, senza passare da un concorso pubblico?

Renzo Piano: Sinceramente non mi è mai balenata l’idea che questo dovesse essere un concorso pubblico. Non che io veda male i concorsi. Anzi. La mia vita professionale è costruita sui concorsi. Dal Beaubourg, io avevo 33 anni, Richard Rogers qualcuno in più, all’aeroporto di Kansai in Giappone. Berlino, la Potsdamer Platz … sono tutti concorsi. Ad un certo punto della mia vita ho smesso di fare concorsi, ma non è per una ragione di arroganza. È perché fare un concorso è un po’ come innamorarsi di un progetto. E c’è un’età in cui non c’è più tempo per innamorarsi e veder la sposa partire con qualcun altro.

swissinfo: Quali idee ha “rubato” a Paul Klee per ispirarsi nella progettazione del museo?

R.P.: Paul Klee è uno degli artisti più prolifici e complessi del XX secolo. Dato che era una mente poliedrica, ha sempre fornito l’occasione di un malinteso. Cioè che si possa fare di Klee qualsiasi cosa. Invece il grande insegnamento del Bauhaus, di cui Klee fu uno degli esempi più luminosi d’insegnante, non era che si potevano mettere insieme come una specie di zuppa di pesce tutte le arti. Ma era basato sul principio che c’era una specie di approfondimento, di fecondarsi reciproco di un terreno sull’altro, attraverso i valori profondi della poetica. Ad esempio il senso di leggerezza, di appartenenza, la luce. Nell’opera di Klee c’è tutto, c’è la natura, ci sono i campi di frumento, gli uccelli, l’ironia, il dramma. È profondissima e molto complessa. C’è certamente anche la terra. Da qui dunque l’idea che più che fare un edificio, bisognava creare un luogo, sollevare la coltre della terra, fare un’opera di arte del territorio. Un lavoro quasi più da topografo che da architetto, o addirittura da contadino sapiente.

swissinfo: Parliamo di dimensioni: l’opera di Klee è molto intima. Perché un centro quasi monumentale per esporla?

R.P.: Sono convinto che ogni museo, ogni luogo di questo genere ha una specie di dimensione sacra: è un luogo di protezione delle opere. Un’opera è per definizione un oggetto di grande fragilità, precario nella sua consistenza fisica e quindi un museo è fatto per dargli durata, per proteggerlo. Altrettanto sacro è l’aspetto contemplativo, il fatto che un museo è fatto per godere di un rapporto intimo con l’opera d’arte. C’è una dimensione che è più profana, che è legata piuttosto all’aspetto sociale del museo come luogo d’incontro, dove si va semplicemente per comprare un libro, per incontrare delle persone, ascoltare musica, o andare a mangiare qualcosa nella caffetteria. La dimensione dell’edificio è diventata più grande di quello che servirebbe per far vedere l’opera di Klee proprio perché bisognava dargli questa poliedricità. Ma non è gigantesco. Diventa una cosa che gioca a nascondino con la natura.

swissinfo: A proposito di fragilità dell’opera: perché non c’è luce naturale negli spazi espositivi?

R.P.: L’opera di Klee è molto vulnerabile, spesso è acquarello su carta, o addirittura olio su carta. Perché lui aveva questa bella abitudine: a volte la mattina, se non aveva la tela, e aveva un foglio di giornale, leggeva il giornale e poi dava una mano di cementite e ci dipingeva sopra. Per cui abbiamo a volte opere di grandissima fragilità, che è pericoloso esporre alla luce. Dunque la scelta è stata di destinare la luce naturale a quella che noi chiamiamo la strada interna, che è la dimensione più profana del museo. Ma quando si entra nella sala espositiva a questo punto c’è la luce artificiale, che è quella che riusciamo a controllare meglio. Su certe opere non possiamo mettere più di 20, 30 lux. Non 300, 400 come si fa normalmente con un dipinto a olio.

swissinfo: Questa divisione sacro – profano, spazio pubblico – spazio privato non ha posto dei problemi di sicurezza? Anche in Svizzera, dopo l’11 settembre, c’è un po’ la mania di voler controllare e proteggere tutto.

R.P.: L’architettura celebra la convivialità, lo stare insieme. Se l’architettura viene soggiogata dal terrore, allora è meglio occuparci d’altro. Non esiste un’architettura antiterrorismo. L’unica architettura che riesca a combattere il terrore sotto questo punto di vista è l’architettura delle caverne. E sarebbe per l’appunto il trionfo del terrorismo quello di costringere il resto del mondo a vivere nelle caverne. Io ero a New York l’11 settembre. Ho vissuto questa esperienza in prima persona. Ma è evidente che la risposta al problema del terrorismo è politica, non tecnica. La Svizzera ci ha dimostrato che quando ha dato una risposta tecnica al terrore della bomba atomica, ha prodotto per 20, 30 anni ripari antiatomici che sono diventati depositi di scatole vuote. Non sto biasimando niente. Dico solo che l’attacco dell’11 settembre è stato un attacco alla città in quanto “civitas”, civiltà. Certo quello era anche il simbolo del potere americano. Se i luoghi di cultura si chiudono in se stessi, cessa la loro stessa funzione, che è per l’appunto “fertilizzante”. La parte pubblica del museo Paul Klee, la cosiddetta strada interna è molto semplice da controllare, è diretta. Non ci sono nascondigli. Ma avremo dei bambini, vivaddio! C’è il museo dei bambini. Se la nostra civiltà ci costringe ad auto-castrarci a tal punto, da fare queste cose e poi soffrirci, chiuderci in casa, allora a questo punto è veramente la fine della civiltà.

swissinfo: Parlando di bambini. Paul Klee era affascinato dai disegni di suo figlio e dei suoi amichetti. Qual è il suo rapporto con la creatività dei suoi figli e nipoti?

R.P.: Io ne ho di tutte le età. Il più piccolo ha sei anni. È straordinaria la creatività di un bambino, talmente straordinaria che non bisogna nemmeno sforzarsi troppo di ingabbiarla o di dirigerla. Di fatti nessuno ha mai pensato che i bambini vengano nel centro di Paul Klee per essere attivati, ma semplicemente per godersi la propria innocenza. Devo anche dire, a scanso di equivoci, che c’è una lettura un po’ sciocca di Paul Klee, che qualcuno interpreta come infantile. È un altro dei malintesi endemici intorno a Paul Klee. L’altro è che Paul Klee si può tradurre in tutto. Un discorso è l’infantile, un discorso è l’innocenza, che non manca di intensità e di profondità.

swissinfo: Lei si occupa anche di progetti in quartieri degradati? Per grandi e bambini che non sono affatto circondati dalla bellezza?

C’è una forza del bello che è straordinaria. Quella del bello è un’emozione profonda, fortissima. E non è nemmeno un’idea romantica. È semplicemente un’idea straordinariamente forte. È forse la sola emozione forte, assieme alla sorella maggiore che è l’amore. Capace di contrapporsi all’emozione della potenza, del denaro e della vittoria, emozioni spaventose che governano il mondo. Non ho niente contro il potere, contro il denaro. Ma è evidente che l’emozione del potere implica l’ingiustizia, molto spesso. L’emozione della ricchezza implica la povertà. La bellezza è un’idea splendida, meravigliosa, che non ha controindicazioni. Come scriveva il mio amico Italo Calvino nelle “Città invisibili”, in ogni città, anche la più brutta c’è sempre un angolo felice. Così come nell’inferno c’è ciò che non è inferno. E l’attività di architetto è anche quella di capire in mezzo all’inferno quello che non è inferno e dargli spazio, farlo crescere. Quello che negli anni ’60, ’70 è stata la riconquista della dignità dei centri storici, oggi è certamente il lavoro sulle periferie. Le periferie urbane sono la città che sarà. O che non sarà, e allora saranno davvero problemi grossi, perché è la barbarie. Invece l’idea è che sostanzialmente ci vorranno 20, 30, 40 anni, ma purché non se ne fabbrichino altre, le periferie diventeranno città.

swissinfo: Ma se le offrissero un progetto molto prestigioso, oppure un progetto in una favela, quale vorrebbe?

R.P.: Noi in ufficio siamo così fortunati, e non lo dico con disprezzo per nessuno, che scegliamo veramente quello che vogliamo fare. Quindi in realtà noi non facciamo le cose per bisogno. Tutti i giorni c’è qualcuno che ci offre di fare la sede o “l’headquarter” di questa o di quest’altra società. Ma non è detto che noi scegliamo questo, anzi. Ad esempio ora uno dei nostri progetti è quello dell’ampliamento della Columbia University ad Harlem. E Harlem è la periferia di New York. Poi con l’Unesco, di cui sono goodwill ambassador, stiamo lavorando nella periferia ovest di Sarajevo che è estremamente povera. Lo facciamo naturalmente gratuitamente. Poi sempre con l’Unesco sto facendo un progetto per la periferia milanese di Pontelambro. Io sono arrivato alla maturità negli anni ’60, a Milano in una facoltà che è quella di architettura, dove nel ’62, ’63 c’è stata la prima occupazione di università. Quando uno a 23, 24 anni occupa l’università, ci va a dormire, sono cose che gli restano nella pelle. C’è questa specie di ansia del sociale, che ti resta dentro. L’aspetto del sociale mi ha sempre attirato.

swissinfo, Raffaella Rossello

Renzo Piano nasce a Genova nel 1937 da una famiglia di costruttori edili.
Si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1964.
Tra il 1965 e il 1970 lavora con Louis Kahn a Filadelfia. Incontra Jean Prouvé, che ha una grande influenza su di lui.
Nel 1971 il suo primo grande progetto: il Centro George Pompidou (Beaubourg), insieme a Richard Rogers.
Nel 1977 crea l’ufficio Piano & Rice, con l’ingegnere Peter Rice, con cui realizza moltissimi progetti, fino alla sua morte nel 1993.
1997: Museo della Fondazione Beyeler a Basilea.
Renzo Piano dirige ora tre uffici, a Genova, a Parigi e a Berlino, raggruppati sotto il nome di Renzo Piano Building Workshop (RPBW).

Il Centro Paul Klee, situato alla periferia di Berna, è costituito da tre forme arrotondate che escono dal terreno come una specie di scultura paesaggistica.

Le tre “colline” (nord, centrale, sud) sono collegate tra di loro da uno spazio pubblico, un percorso interno chiamato la Strada del museo, lunga 150 metri.

Oltre alle mostre d’arte, il Centro Paul Klee propone anche un palcoscenico per musica, teatro, danza, letteratura e spazi per conferenze e seminari.

In conformità con gli standard di JTI

Altri sviluppi: SWI swissinfo.ch certificato dalla Journalism Trust Initiative

Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti Potete trovare una panoramica delle discussioni in corso con i nostri giornalisti qui.

Se volete iniziare una discussione su un argomento sollevato in questo articolo o volete segnalare errori fattuali, inviateci un'e-mail all'indirizzo italian@swissinfo.ch.

SWI swissinfo.ch - succursale della Società svizzera di radiotelevisione SRG SSR

SWI swissinfo.ch - succursale della Società svizzera di radiotelevisione SRG SSR