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Disordini civili potrebbero propagarsi in Europa

Dopo la Tunisia, anche l'Europa potrebbe diventare teatro di proteste sociali? Keystone

L'attuale ondata di proteste sociali nel Nord Africa potrebbe contagiare l'Europa. A meno che non si crei più occupazione, afferma l'UNI Global Union, l'organizzazione internazionale dei sindacati dei servizi.

Parlando con swissinfo.ch a margine del l 41° Forum economico mondiale (WEF) di Davos, Philip Jennings, segretario generale dell’organizzazione con sede a Nyon, nel cantone di Vaud, ha ricordato che una carenza cronica di posti di lavoro è stata una delle ragioni della cosiddetta “rivolta del gelsomino” che recentemente ha portato al rovesciamento del presidente tunisino Ben Alì.

Con tassi di disoccupazione intorno al 10% nell’Unione europea (UE), i governi dei Ventisette dovrebbero riconsiderare le politiche di austerità ed elaborare un nuovo contratto sociale con i lavoratori, dice Jennings.

In un intervento al WEF, Jennings ha d’altra parte elogiato il modello svizzero dei rapporti di lavoro. A suo avviso, si tratta di un sistema di cui fare tesoro.

swissinfo.ch: C’è il pericolo che le tensioni sociali che infiammano attualmente paesi del Nord Africa si possano verificare anche in Europa?

Philip Jennings: Il livello di disoccupazione tra i giovani in Africa del Nord è del 45%. C’era uno sfruttamento economico e quei giovani erano pronti a cambiare il mondo.

In Europa, la Gran Bretagna è in un momento difficile e siamo preoccupati per l’Irlanda. In Grecia c’è uno scontro continuo tra leader sindacali e governo. I politici hanno salvato il sistema finanziario, ma sono poi arrivati privi di risorse al momento di affrontare le conseguenze sociali.

swissinfo.ch: Le misure di austerità di alcuni paesi dell’UE – taglio di posti di lavoro nel settore pubblico e di servizi – potrebbero aumentare la tensione?

P.J.: Comprendiamo che ci debbano essere interventi con i quali gli Stati mirano a salvare il sistema finanziario. Ma la velocità e la strada seguite sono semplicemente sbagliate.

C’è stato un sollievo per la ripresa economica, ma ora queste decisioni [di austerità] colpiscono ogni famiglia. Le misure di austerità sono così profonde che noi siamo preoccupati per la loro accettabilità sociale. La gente non vede ancora le conseguenze, ma stanno già arrivando.

swissinfo.ch: Che cosa bisogna fare per alleviare la situazione?

P.J.: Dovremmo prendere delle decisioni politiche molto gravi a livello fiscale e aiutare i salariati a negoziare le condizioni di lavoro. La crescita cui abbiamo assistito [prima della crisi finanziaria] era ristretta e deve diventare più globale.

Le elite finanziaria e commerciale hanno agito come una enorme pompa di aspirazione ed hanno fatto grandi affari con la ricchezza prodotta. Nelle nostre società sono stati scavati dei fossati: la classe media sta restringendo, tagliata fuori dal proprio paese da  una plutocrazia ai vertici.

swissinfo.ch: La Svizzera è un modello per il mondo con il suo basso tasso di disoccupazione e i rapporti di lavoro armoniosi?

P.J.: In Svizzera, nel dopoguerra, è stato raggiunto un accordo sulla pace sociale, che implica che le organizzazioni dei salariati e dei datori di lavoro devono appianare le loro divergenze attraverso negoziati e contratti collettivi di lavoro. Questo dovrebbe essere salvaguardato.

swissinfo.ch: È favorevole alle richieste dei sindacati svizzeri di un salario minimo nazionale fissato per legge?

P.J.: C’è il timore generale che un numero crescente di salariati delle fasce inferiori restino tagliate fuori da tali disposizioni [dei contratti collettivi] a causa dell’ampliamento del settore dei servizi, dove ci sono diversi modelli di lavoro e di orario di lavoro.

In alcuni comparti non sembra esserci alcun limite da parte dei datori di lavoro per cercare di non pagare correttamente i dipendenti. Una tendenza che si riscontra in settori di lavoro che non sono sotto gli occhi dell’ente pubblico: la pulizia, la ristorazione, la sicurezza. Ecco perché è necessario creare una base sociale.

swissinfo.ch: È giustificato delocalizzare la produzione, e dunque i posti di lavoro, in paesi più convenienti dal profilo dei costi?

P.J.: La corsa alla produzione più a buon mercato ha un effetto negativo sulla capacità di sviluppare prodotti di qualità e valore aggiunto. Non è semplicemente una questione di costi.

Esiste una classe media in espansione in India e Cina che raggiungerà i 600 milioni di persone nel prossimo futuro. Queste persone richiedono prodotti di un certo prestigio. I produttori svizzeri dovrebbero perciò concentrarsi sul marchio di qualità esclusiva dei loro prodotti.

Il tasso di disoccupazione in Svizzera è del 3,6%: un livello basso, in confronto a circa il 10% che si registra nei paesi della zona euro e negli Stati Uniti.

Secondo i dati forniti dall’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), nel mondo ci sono circa 213 milioni di disoccupati.

In questa cifra sono compresi 81 milioni di giovani attualmente senza lavoro. Il numero dei giovani disoccupati è aumentato di 7,8 milioni di persone tra il 2007 e il 2009.

Il numero generale dei senza lavoro è cresciuto di 30 milioni tra il 2007 e il 2009, secondo il Forum economico mondiale (WEF) di Davos.

Nell’UE, i paesi in cui è più difficile trovare un lavoro sono Grecia, Italia e Repubblica Ceca, ha annunciato recentemente la società interinale Manpower.

A livello mondiale, Cina, Taiwan, India e Brasile attualmente offrono le migliori prospettive per l’occupazione.

Il WEF calcola anche che il mondo avrà bisogno di 300 milioni di lavoratori supplementari entro il 2015.

Da un’indagine di PriceWaterhouseCoopers è emerso che il 66% dei dirigenti aziendali ritiene che attualmente vi sia una carenza di lavoratori qualificati.

In Europa si prevede una perdita di 48 milioni di lavoratori entro il 2050, mentre al contempo vi sarebbero 58 milioni nuovi pensionati.

(Traduzione dall’inglese: Sonia Fenazzi)

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