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Hans Hurni: “La gente vede morire il proprio bestiame”

Frauen mit Karren
Donne camminano verso una cisterna d'acqua nel Somaliland. Non ha piovuto da mesi nella regione e l'ONU parla della "peggiore crisi umanitaria dalla fine della Seconda guerra mondiale". Keystone/Pascal Mora

Il Corno d'Africa sta vivendo la peggiore siccità degli ultimi decenni. La valutazione del professore Hans Hurni, che osserva la regione da cinquant'anni.

SWI swissinfo.ch: Le organizzazioni umanitarie hanno lanciato l’allarme su una carestia catastrofica che minaccia l’Africa orientale. Cosa è successo?

Hans Hurni: Le siccità di origine climatica non sono un fenomeno nuovo nella regione, si verificano periodicamente da secoli. La regione è il prolungamento orientale della zona del Sahel ed è caratterizzata da deboli precipitazioni in pianura.  Quando molte stagioni delle piogge consecutive vengono meno, come è stato il caso negli ultimi tre anni, la situazione diventa velocemente precaria. Attualmente, 36 milioni di persone solo colpite e 20 milioni dipendono dagli aiuti alimentari nella sola Etiopia. Sono cifre enormi.

Hans Hurni
Hans Hurni è professore emerito di geografia e sviluppo sostenibile all’Università di Berna. Ha lanciato e diretto il Polo di ricerca nazionale Nord-Sud, dedicato alle tematiche legate alla sostenibilità in Svizzera e nei Paesi in via di sviluppo. Nei suoi 50 anni di carriera, si è interessato in modo particolare all’Africa orientale e ha vissuto dieci anni in Etiopia. Universität Bern

Sì, ma non solo. Numerosi legami di causa ed effetto non sono chiari. L’Oceano Indiano si riscalda più del previsto, con conseguenze negative sulle precipitazioni nel Corno d’Africa. L’effetto serra svolge sicuramente un ruolo anche se, onestamente, ne sappiamo ancora poco per comprendere il fenomeno con precisione. I modelli climatici globali sono troppo imprecisi per questa regione.

A cosa è dovuto?

Nell’Africa orientale si dispone di meno dati scientifici che altrove. Non sono informazioni che cadono dal cielo, bisogna andare a raccoglierle. Ci vogliono persone formate e istituzioni moderne. La debole presenza di scienziati e scienziate è un problema in tutta l’Africa. A ciò si aggiunge la carenza di infrastrutture come le stazioni per le misurazioni. Si parla molto di crisi climatica nel continente, ma non ne conosciamo molto bene il contesto.

A grandi linee, possiamo dire che nella regione – ovvero in Etiopia, Eritrea, Somalia e Kenya – farà più caldo in futuro e le precipitazioni subiranno variazioni più estreme, in crescita oppure in calo.

Ci si deve quindi aspettare che crisi simili si ripetano in futuro?

Viaggio nella regione da quasi 50 anni. In questo lasso di tempo, la popolazione è quadruplicata. Durante la grande carestia del 1984, dieci milioni di persone sono state colpite. Oggi, solo in Etiopia, sono due volte di più a dipendere dall’aiuto alimentare.

Il problema è che lo sviluppo dei Paesi non ha tenuto il passo con la crescita demografica. Secondo una stima approssimativa, circa l’80% delle persone lavora ancora in un’agricoltura a scarso rendimento, mentre i settori dell’industria e dei servizi sono poco sviluppati e concentrati nelle città. Non è così che un’economia nazionale può progredire in modo sostenibile.

Agricoltrici e agricoltori non sono rimasti con le mani in mano e hanno appreso e applicato nuovi metodi di coltivazione utilizzando le risorse naturali in modo più rispettoso. Questo sapere è arrivato inizialmente dall’esterno, mentre le autorità locali, per esempio in Kenya e in Etiopia, si sono concentrate soprattutto sullo sviluppo delle città. Era importante, ma unilaterale.

La crisi attuale tocca principalmente le popolazioni nomadi che vedono sparire il proprio bestiame. Nel corso degli ultimi anni, milioni di animali sono morti di sete o di fame. Queste società di pastorizia – la maggior parte delle quali vivono in regioni di pianura inospitali e sono minacciate dal cambiamento climatico – attraversano quindi una crisi enorme e molte persone si rifugiano nei campi profughi o nelle città. Il ritorno a uno stile di vita nomade può rivelarsi difficile in tali circostanze.

Quale ruolo hanno la pandemia e la guerra in Ucraina in questo contesto?

La pandemia ha naturalmente creato problemi, come ha fatto ovunque. Il rallentamento dell’economia mondiale si ripercuote anche sugli Stati meno integrati nelle catene d’approvvigionamento mondiali. Parallelamente, dei conflitti locali continuano da anni a stabilizzare le società e aggravano la situazione. È il caso del conflitto nel Tigrè, nel nord dell’Etiopia. Combinato con la siccità ha effetti brutali.

La guerra in Ucraina è anch’essa un grande problema. È risaputo che Russia e Ucraina sono tra i principali esportatori di grano. Gran parte della loro produzione è destinata ai Paesi emergenti come la Cina, mentre i Paesi più poveri soffrono molto per l’aumento dei prezzi e per le incertezze nella pianificazione. Nell’accordo sulle esportazioni del grano ucraino, solo una piccola parte è stata garantita all’Africa orientale.

Assisteremo a movimenti di persone rifugiate più importanti?

Si stanno già verificando, tra diversi Paesi ma anche a livello regionale. È, secondo me, una delle ragioni per cui questa crisi non è percepita molto in Occidente. Quasi nessuna persona di laggiù arriva fin da noi, poiché queste popolazioni sono semplicemente troppo povere per intraprendere un viaggio così lungo.

Cosa si può fare ora?

Sul corto termine, è chiaro che un aiuto rapido è necessario. Centinaia di migliaia di persone sono gravemente minacciate dalla fame. Le organizzazioni umanitarie sono ben presenti sul posto, lo sono da tempo e sono sempre riuscite a intervenire in caso di crisi. Le strutture per la distribuzione di beni di prima necessità sono quindi attive.

Tuttavia, c’è un paradosso ironico: poiché l’aiuto contro la fame funziona bene, vediamo meno immagini di carestia drammatiche rispetto al passato, benché il numero di persone colpite dalla penuria alimentare sia molto più elevato. Di conseguenza, la volontà di donare diminuisce ed è un grosso problema.

E sul lungo termine?

È molto più complesso. La crescita e la composizione della popolazione non cambieranno presto. La questione va quindi affrontata nel suo insieme: educazione, sanità, industrializzazione, stabilità politica. Senza società robuste sarà difficile superare le sfide del cambiamento climatico. Nell’agricoltura, l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali limitate resta una questione centrale.

Ma non sono solo pessimista. Ciò che vediamo attualmente è senza dubbio il risultato dell’unione di influenze climatiche e di instabilità politica. Secondo alcuni modelli del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) le condizioni climatiche potrebbero anche migliorare sul medio termine e le catastrofi potrebbero diminuire. Ad ogni modo, i Paesi non potranno fare altro che sviluppare le proprie capacità di resilienza.

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