Piccolo paese, grande reputazione in Cina

Durante la guerra fredda, la Svizzera ha rappresentato per la Cina una specie di finestra diplomatica sul mondo. Per questo, sostiene il sinologo Harro von Senger, ancora oggi Pechino è grata a Berna.
La Cina è un gigante con – si stima – 1,3 miliardi di abitanti. Nessuno conosce la cifra esatta. Calcolando un margine d’errore dell’1%, ci si ritrova con 13 milioni di persone di cui s’ignora l’effettiva esistenza: sono quasi il doppio dei 7,59 milioni di abitanti registrati ufficialmente in Svizzera.
Ma i due paesi sono legati in modo più stretto di quanto non lascino supporre numeri tanto diversi. Nel 1950, la Svizzera è stato uno dei primi paesi a riconoscere la Repubblica popolare cinese, figlia della rivoluzione maoista.
Pragmatismo
«La decisione non fu il frutto di una riflessione politica approfondita», spiega a swissinfo il sinologo Harro von Senger. «A convincere il governo di allora furono piuttosto degli argomenti di carattere tecnocratico». Il Consiglio federale non voleva rinunciare alla sua rappresentanza diplomatica sulla terraferma cinese. Ma se avesse continuato a sostenere Chiang Kai-shek – il politico e militare cinese che tentò, fallendo, di sradicare i comunisti – avrebbe dovuto traslocare sull’isola di Taiwan, dove si era ritirato il governo guidato da Chiang.
«Per Pechino, la Svizzera era molto preziosa. Era uno dei pochi paesi europei in cui si trovava una rappresentanza cinese», racconta von Senger. Questa finestra sul mondo fu importante per la Cina, soprattutto durante la guerra fredda.
Anche la politica di neutralità seguita dalla Svizzera piaceva ai cinesi. «Inoltre, viste le sue dimensioni, la Confederazione non suscitava i sospetti dei cinesi. Non avevano l’impressione che perseguisse degli scopi nascosti».
Grazie a valori come la neutralità e l’indipendenza, la Svizzera ha goduto di una buona posizione anche dopo l’apertura economica e le riforme lanciate da Deng Xiaoping nel 1979. Oggi, in un momento in cui lo sviluppo economico è prioritario per la Cina, la Confederazione può contare soprattutto sulle esportazioni e sul know-how tecnico.
«Malinteso» sui diritti umani
La discussione sui diritti umani, che la Svizzera ha intavolato con la Cina nel 1991, è una peculiarità elvetica. Anche la Germania, la Danimarca e altri paesi affrontano regolarmente il tema con le autorità cinesi. Ma secondo Harro von Senger, non hanno la stessa legittimazione della Svizzera.
«Per quanto riguarda ad esempio i rapporti con le minoranze, la Confederazione può discutere con i cinesi sullo stesso piano, consapevole delle proprie competenze».
A questo proposito, però, von Senger constata che in Svizzera ci sono delle aspettative caratterizzate da malintesi e ignoranza. «La nostra idea dei diritti umani in Cina», constata il sinologo, «si basa su un deficit d’informazione in merito alla posizione del paese nella discussione globale sui diritti umani».
In Svizzera e negli altri paesi occidentali si pensa alla libertà di stampa e di espressione, ai prigionieri politici, al Tibet. In Cina, spiega von Senger, la priorità è data ad altre cose. Per esempio al diritto allo sviluppo.
«Si tratta di un diritto accettato dall’assemblea generale delle Nazioni unite nel 1986 con 146 voti a favore, l’astensione di otto paesi europei e il voto contrario degli USA», ricorda von Senger. «Quando la Cina afferma che le olimpiadi permetteranno di migliorare la situazione dei diritti umani, pensa a questo tipo di diritti. La costruzione d’infrastrutture porta sviluppo». E non si tratterebbe di un’interpretazione tipicamente cinese o ispirata dal confucianesimo, ma della posizione ufficiale dell’ONU.
Dalla parte della maggioranza
In Svizzera, si è sempre parlato poco del Consiglio dei diritti umani e della Commissione che l’ha preceduto. «Ciò che succede in casa propria – da sempre la sede di questo organo dell’ONU è a Ginevra – viene boicottato dalla stampa locale», critica von Senger. Così nasce l’impressione che in Cina i diritti umani non contino niente.
«Così capita che di tanto in tanto una delegazione svizzera o tedesca vada a Pechino a spiegare ai cinesi che in Occidente esistono i diritti umani», dice con una punta d’ironia il sinologo. In realtà, sarebbe la Svizzera ad ignorare quali sono le questioni attuali in materia di diritti umani.
Von Senger – che segue con attenzione le sessioni del Consiglio dei diritti umani – fa notare che «la Cina siede nella stanza dei bottoni. Quasi sempre, quando ci sono delle votazioni combattute su risoluzioni controverse, si trova dalla parte della maggioranza, insieme ai paesi del sud».
Con ciò, il sinologo non vuole affermare che impegnarsi in favore dei prigionieri politici non sia opportuno. Bisogna tuttavia rendersi conto che se Pechino libera dei detenuti sulla base delle liste di prigionieri inoltrate dagli occidentali, lo fa per guadagnarsi delle simpatie.
swissinfo, Renat Künzi
traduzione, Doris Lucini
Il 25 marzo 1999, durante la visita a Berna dell’allora capo di stato cinese Jiang Zemin, alcuni dimostranti si riunirono davanti a Palazzo federale per protestare contro la politica cinese in Tibet.
Arrabbiato, Jiang Zemin rifiutò di essere ricevuto ufficialmente davanti a Palazzo federale. In seguito, chiese alla presidente della Confederazione Ruth Dreifuss se «avesse in mano» o no il suo paese.
Politici e rappresentanti del mondo economico temettero che l’incidente diplomatico potesse sfociare in una crisi delle relazioni bilaterali. Ma non fu il caso.
Secondo Harro von Senger, però, il fatto mise un freno alla liberazione di prigionieri politici in Cina, liberazione che era stata concordata prima della visita di Jiang Zemin.
Nato nel 1944 a Ginevra, Harro von Senger è professore di sinologia all’Università Albert Ludwig di Friburgo in Brisgovia. È inoltre esperto di diritto cinese all’Istituto svizzero di diritto comparato di Losanna.
Von Senger è ritenuto uno dei massimi esperti mondiali del modo di pensare cinese. I suoi libri «Stratagemmi» e «Supraplanung» (non tradotto in italiano) sono considerati dei classici.
Negli anni Settanta è stato uno dei primi occidentali a studiare in Cina, all’Università di Pechino.
Secondo von Senger, ci sono tre elementi che caratterizzano la politica e la società cinese: il marxismo di stampo cinese, la tradizione degli stratagemmi e delle astuzie, e la «Supraplanung», termine con il quale il sinologo svizzero definisce il fatto di pensare, pianificare e agire basandosi su lassi di tempo molto lunghi.

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