La disinformazione ritarda le azioni urgenti per il clima
L’industria fossile e membri della destra populista stanno coordinando campagne di disinformazione per ostacolare gli sforzi volti ad affrontare la crisi climatica. È quanto afferma il coautore di un nuovo rapporto sulla diffusione di false informazioni sui cambiamenti climatici.
Klaus Bruhn JensenCollegamento esterno è professore all’Università di Copenaghen. Negli ultimi anni, afferma, il negazionismo climatico si è evoluto in campagne strutturate che hanno lo scopo di screditare le soluzioni per la protezione del clima.
“È un modo per confondere le acque – una sorta di ‘scetticismo strategico’ – che cerca di mettere in discussione e delegittimare soluzioni da tempo sostenute dalla climatologia”, afferma a Swissinfo.
Jensen ha co-diretto uno studioCollegamento esterno condotto dall’International Panel on the Information Environment (IPIE), con sede a Zurigo, pubblicato in giugno. L’analisi ha esaminato 300 articoli scientifici sulla disinformazione climatica nell’ultimo decennio.
Aziende di combustibili fossili, populisti di destra, think tank e alcuni Stati hanno smesso di negare apertamente il cambiamento climatico, passando invece alla diffusione di dubbi sulle soluzioni proposte, secondo lo studio. L’obiettivo è minare la fiducia e ritardare interventi politici ed economici, inclusa la transizione verso le energie pulite.
Jensen cita come esempio il modo in cui voci critiche hanno rapidamente attribuito la colpa dell’enorme blackout in Spagna e Portogallo del 28 aprile all’energia solare ed eolica. Questa narrazione è stata amplificata sui social media per settimane, prima che il Governo spagnolo dichiarasseCollegamento esterno ufficialmente che il blackout era stato causato dall’incapacità dell’operatore nazionale della rete elettrica e delle aziende private di gestire la tensione della rete.
“È un buon esempio di come allusioni non confermate, del tipo ‘forse potrebbe essere questo’ o ‘mi chiedo se sia così’, siano state diffuse e riprese da alcuni media,” osserva Jensen.
Ma non è solo l’effetto sull’opinione pubblica a destare preoccupazione, afferma il professore danese. Una delle principali scoperte è che la disinformazione si focalizza sempre più nel raggiungere leader politici, funzionari pubblici e autorità di controllo, spesso attraverso canali poco visibili.
I soliti sospetti, ma più organizzati
Gli interessi dietro questa disinformazione sono rimasti in gran parte invariati rispetto a 10–20 anni fa. Oggi formano però coalizioni più strutturate, ad esempio tra compagnie di combustibili fossili e gruppi politici.
Il rapporto descrive come l’industria petrolifera abbia adottato una “doppia strategia ingannevole”: da un lato nega il cambiamento climatico e la propria responsabilità, dall’altro utilizza il greenwashing per apparire sostenibile. Anche altri settori – tra cui aziende elettriche statunitensi, agricoltura intensiva, compagnie aeree, turismo e fast food – hanno contribuito a diffondere disinformazione climatica.
Il rapporto cita uno studio basato su 725 resoconti di sostenibilità aziendaleCollegamento esterno, che ha rilevato gravi discrepanze tra le dichiarazioni ambientali delle imprese e le loro pratiche reali. Anche documenti legali provenienti da industrie inquinanti coinvolte in contenziosi climatici sono stati utilizzati per diffondere narrazioni che minimizzano il loro ruolo nel riscaldamento globale.
“Il ruolo dei bot è di accentuare ulteriormente la polarizzazione nel dibattito sull’azione e sulle politiche ambientali.”
Klaus Bruhn Jensen è professore di media e comunicazione
Secondo l’IPIE, la ricerca sull’ultimo decennio indica la formazione di un “contro-movimento sul cambiamento climaticoCollegamento esterno” coordinato e attivo in diversi settori, tra cui combustibili fossili, plastica e fabbricazione di prodotti chimici per l’agricoltura.
Ricercatori e ricercatrici hanno documentato una collaborazione organizzata tra compagnie di combustibili fossili, Stati e attori politici per negare le evidenze scientifiche sul cambiamento climatico e ritardareCollegamento esterno politiche e interventi. Gruppi d’interesse, associazioni, lobby e think tank agiscono spesso in sinergia per contrastare o rallentare le soluzioni di mitigazione climatica.
“Una bufala gigantesca”
Negli Stati Uniti, il cambiamento climatico è diventato un tema divisivo. Il presidente Donald Trump, che ha definito la scienza climatica una “bufala gigantesca” e ha ritirato gli USA dall’Accordo di Parigi per la seconda volta, è un influencer chiave. Secondo il rapporto, “le sue fallacie logiche, le affermazioni infondate e la selezione parziale dei dati” sono state ampiamente ripubblicate sui social media, anche da numerosi account automatizzati (bot).
I think tank fungono da ponte tra partiti politici, decisori pubblici e interessi legati ai combustibili fossili, osserva l’IPIE.
Laboratori di idee statunitensi come l’Heartland Institute e la Heritage Foundation promuovono posizioni negazioniste sul clima. Ad esempio, la Heritage Foundation ha coordinato il “Project 2025Collegamento esterno”, un piano che propone di porre fine al “fanatismo climatico” e di ridurre i finanziamenti statunitensi per l’azione climatica, sia a livello nazionale che internazionale. Secondo Klaus Bruhn Jensen, think tank simili sono attivi anche in Europa.
Bot ed eco-nazionalismo
Anche la Russia è diventata un “attore di rilievo” negli ultimi anni. Il rapporto rileva che i servizi segreti russi hanno utilizzato fabbriche di troll per diffondere disinformazione sul cambiamento climatico attraverso i social media.
Nel frattempo, in Europa, i partiti populisti di destra stanno “contrastando attivamente la scienza climatica”, afferma l’IPIE, che cita le posizioni del partito Vox in Spagna, dell’Alternative für Deutschland (AfD) in Germania e del Rassemblement National (RN) in Francia.
“Utilizzano ciò che viene definito eco-nazionalismo, cioè l’idea che l’uso dei combustibili fossili sia parte integrante dell’identità nazionale, sostenendo: ‘Non diteci di smettere di usarli, perché così facendo mettete in discussione la nostra identità nazionale’”, osserva Jensen.
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I bot e i troll online amplificano queste narrazioni.
“Ma non è chiaro se siano centrali in questo sforzo. Di certo vengono utilizzati da entrambi i campi – sia dagli attivisti climatici che dai negazionisti del clima. Si può dire che il ruolo dei bot sia quello di accentuare ulteriormente la polarizzazione nel dibattito sull’azione e sulle politiche ambientali”, dice il professore danese.
L’ONU tenta di contrastare la disinformazione
La disinformazione climatica è una preoccupazione globale crescente. Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) ha avvertito che la disinformazione mina l’efficacia dell’azione climaticaCollegamento esterno.
Le Nazioni Unite, l’UNESCO e il Brasile hanno lanciato lo scorso anno l’Iniziativa globale per l’integrità dell’informazione sul cambiamento climaticoCollegamento esterno. L’iniziativa sarà discussa alla conferenza COP30 che si terrà in novembre a Belém, in Brasile.
La relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani e il cambiamento climatico, Elisa Morgera, ha chiesto ai Governi di adottare misure più severe. Di recente ha proposto di criminalizzare la disinformazione e il greenwashingCollegamento esterno da parte dell’industria dei combustibili fossili e ha presentato un nuovo rapportoCollegamento esterno al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra che chiede misure più incisive.
Trasparenza ed educazione climatica
Dal canto suo, l’IPIE raccomanda l’obbligo di rendicontazione dell’impronta di carbonio per aziende e istituzioni pubbliche, al fine di migliorare la trasparenza. In Europa, il Regolamento sui servizi digitali Collegamento esternopotrebbe aiutare a moderare i contenuti legati al clima sui social media.
È inoltre necessaria una migliore educazione climatica, sia in seno all’opinione pubblica che al mondo politico, per accrescere la comprensione scientifica generale e correggere le falsità specifiche, afferma l’IPIE.
Tuttavia, è anche necessario approfondire la ricerca sulla disinformazione, poiché gli studi attuali si concentrano quasi esclusivamente su contenuti in lingua inglese e sui Paesi occidentali.
“In Africa, America Latina e Asia, la ricerca su questo tema è molto scarsa. Ciò che è preoccupante è che non sappiamo se processi simili stiano avvenendo anche nel Sud globale”, afferma Jensen.
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A cura di Gabe Bullard/br
Articolo tradotto con il supporto dell’IA/lj
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