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Seveso 25 anni dopo: sopra la diossina nidificano i fagiani

1976: specialisti raccolgono campioni di terra contaminata nei dintorni di Seveso Keystone Archive

Martedì ricorre il 25º anniversario dell'incidente di Seveso: il 10 luglio 1976 una nube tossica contenente diossina si sprigiona dalla fabbrica Icmesa di Meda, filiale della svizzera Roche, e investe Seveso, Cesano Maderno e Desio, località brianzole ad una ventina di chilometri a nord di Milano, abitate da almeno 37'000 persone. Un catastrofe che ha dato un impulso determinante all'elaborazione di leggi sulla sicurezza e sull'ambiente.

Un quarto di secolo dopo, la zona A, la più colpita, è diventata il «Bosco delle Querce», un parco abitato da lepri e fagiani; Roche, casa madre della Icmesa, ha sborsato circa 300 milioni di franchi; 21 cause contro la Givaudan, ex-filiale del gruppo basilese, aspettano ancora una sentenza definitiva. Le autorità europee e svizzere hanno nel frattempo adattato le loro leggi per evitare che tali incidenti si ripetano.

Oggi la natura si è riappropriata dei luoghi, ma il veleno è sempre presente. Nel parco di 43 ettari è infatti stato sepolto il terreno contaminato della «zona A», incapsulato in due vasche sigillate di cemento e plastica, ricoperte da una spessa coltre di terra. La collinetta è sotto controllo costante: ogni litro d’acqua che ne fuoriesce è esaminato per rilevare tracce di diossina, uno dei veleni più potenti al mondo e praticamente indistruttibile. Diverse centinaia di litri d’acqua attendono in un contenitore bianco di essere filtrati e distillati.

Fino al 1976 al posto del parco c’erano le case. Un intero quartiere che gli abitanti hanno dovuto lasciare abbandonando tutto. 736 gli abitanti evacuati e 37 la case demolite. L’area, ora bonificata, è ricoperta da decine di migliaia di alberi e arbusti e vi sono stati immessi molti uccelli e mammiferi.

Quattro giorni dopo la fuga della nube tossica – avvenuta per una reazione chimica che ha fatto aumentare la pressione in un miscelatore usato per la fabbricazione di tricolofenolo, sostanza usata dall’Icmesa per gli erbicidi – si sono manifestati fra i bambini i primi sintomi di lesioni cutanee (cloràcne).

Ma solo due settimane dopo la catastrofe sono state prese le prime misure ufficiali di evacuazione dei luoghi. Sono occorsi diversi giorni anche per scoprire che, oltre al cloro, era fuoriuscita diossina. La basilese Hoffmann-La Roche, casa madre della Icmesa SA, aveva parlato di alcune centinaia di grammi fino ad un massimo di un chilo. In un libro sul disastro pubblicato dalla Regione Lombardia si arriva invece fino a 130 chili.

Dato che gli effetti al lungo termine della diossina sugli embrioni erano ancora sconosciuti, alle donne incinte era stato consigliato di abortire. Negli anni dopo il disastro tutta la popolazione di una vasta zona (oltre 200’000 persone) è stata sottoposta a controlli medici regolari. Gli scienziati non sono tuttora unanimi sul legame diretto fra l’esposizione alla diossina e l’apparizione di tumori e malformazioni. È stato rilevato però un maggior numero di bambine fra i nascituri. Sembra infatti che la probabilità di mettere al mondo una femmina aumenti con la maggiore concentrazione di diossina nel sangue dei genitori, soprattutto dei padri.

Mentre il nome di Seveso è associato al disastro ecologico e allo scandalo di fusti tossici in giro per l’Europa, l’immagine del vicino comune di Meda è stata risparmiata. Forse la posta in gioco per questa «capitale» della costruzione del mobile era troppo alta. Il fossato che si è creato fra i due paesi esiste ancora oggi. Ma anche Seveso stessa è attraversata da profondi fossati, quelli creati dai risarcimenti più o meno cospicui concessi a seconda delle zone abitate all’epoca. Per alcuni «è stata Santa Diossina», sottolinea una donna del luogo.

Finora il colosso della chimica basilese Roche ha sborsato 300 milioni di franchi, fra indennizzi alla popolazione colpita, costruzione di nuove case, spese di decontaminazione e costi di costruzione e sorveglianza del deposito di rifiuti tossici. Ma si attende ancora una sentenza definitiva della Corte di cassazione di Roma per 21 cause (tre delle quali collettive) intentate contro la Givaudan, ex-filiale di Roche, dagli abitanti della zona sinistrata per le sofferenze psichiche patite.

«Le pretese dei querelanti sono inferiori ai 20 milioni di franchi», dice il portavoce di Givaudan, Peter Wullschleger. «Ma per noi – aggiunge – questi casi non rispettano le condizioni previste dalla legge per far valere i propri diritti».

swissinfo e Ursina Trautmann (ats)

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