“Abbiamo il dovere di ridere della morte”
A partire da quando la vita è davvero finita e a chi spetta deciderlo? Sono questi gli interrogativi che fanno da sfondo all’ultimo film del regista elvetico Lionel Baier. Interpretato da Patrick Lapp e Carmen Maura, “La Vanité” affronta con umorismo e sensibilità il tema del suicidio assistito in Svizzera e rimette in questione il nostro rapporto alla morte. Incontro.
Girato integralmente in studio, “La Vanité” è stato presentato in prima mondiale al Festival di Cannes, in una sezione parallela, e riproposto al pubblico di Piazza Grande, al 68esimo Festival del film di Locarno. Il film uscirà nelle sale della Svizzera francese il 30 settembre 2015 e nella Svizzera tedesca il 22 ottobre.
swissinfo.ch: Si può davvero ridere della morte e di un tema così carico di senso come il suicidio assistito?
Lionel Baier: Certo! Non solo abbiamo il diritto di ridere della morte, ma abbiamo il dovere di farlo. Il miglior modo di affrontare delle tematiche serie è quello di parlarne con umorismo. La comicità non è una mancanza di rispetto, ma il tentativo di affrontare un tema in modo più preciso.
A volte l’umorismo ci aiuta a meglio comprendere le cose che ci toccano particolarmente. Credo che un tema come la morte, o il suicidio assistito, sia ideale per la commedia o una forma di commedia, perché permette di mantenere un certo distacco e di non essere solo su un registro emotivo.
swissinfo.ch: «La Vanité» prende spunto da una storia vera… Può dirci qualcosa di più?
L. B.: È un’idea che viene da lontano. Una volta un mio ex studente della scuola di cinema di Losanna mi ha raccontato che si prostituiva per pagarsi gli studi. Una sera era in un hotel quando un uomo gli ha chiesto di fargli da testimone. Era nella camera a fianco per metter fine ai suoi giorni con un’associazione di aiuto al suicidio. E secondo la legge svizzera, è sempre necessario un testimone.
Evidentemente il giovane ha rifiutato, ma è rimasto colpito, anche perché essendo straniero, nel paese dal quale proviene la gente è occupata a battersi per vivere e non per morire. Per lui questo sistema che aiuta le persone a morire ed è così ben organizzato era del tutto incomprensibile. “È solo in Svizzera che può accadere una cosa simile”, mi aveva detto.
È partendo che questa idea che con Julien Bouissoux abbiamo scritto la sceneggiatura, inventando un modo per raccontare una storia di finzione.
swissinfo.ch: Per lo sviluppo della sceneggiatura ha visitato diverse organizzazioni di aiuto al suicidio. Cosa l’ha colpita maggiormente e come è evoluta la sua percezione della problematica?
“Anche nella vita di tutti i giorni bisogna amare la morte e portarle rispetto”
L. B.: All’inizio credo di essere andato a visitare queste associazioni con un po’ d’ironia. In fondo mi chiedevo chi fossero questi volontari che ogni giorno vedono morire delle persone sotto i loro occhi. Ero un po’ cinico. Ma poi sono rimasto toccato dalla sincerità con la quale portano avanti questa cosa, che per loro è una specie di missione. Si tratta quasi sempre di donne che hanno lavorato nel settore socio-sanitario, in centri ospedalieri o con le persone anziane e che a volte hanno assistito a casi di accanimento terapeutico. E dunque comprendo la loro logica di pensiero.
L’incontro con questi volontari è stato un po’ una scoperta. Anche se non sono completamente d’accordo con ciò che fanno, non volevo prendermi gioco di loro nel film.
swissinfo.ch: Nel film il personaggio di David Miller, interpretato da Patrick Lapp, vuole avere il pieno controllo della sua vita e della sua morte. È una caratteristica della nostra società?
L. B.: C’è qualcosa di molto attuale in questa impressione che la morte sia qualcosa che si può gestire. La nostra generazione, per lo meno nei paesi ricchi, non ha mai avuto così tante possibilità di scelta: la scelta di avere dei bambini o meno, di sposarsi, di vivere liberamente la propria sessualità. Ci siamo abituati a poter decidere tutto nella nostra vita e dunque abbiamo l’impressione di poter scegliere anche quando morire e quando continuare a vivere. Non dico di essere favorevole o contrario a questo sviluppo, ma sono convinto che solleva una problematica importante: a partire da quale momento la vita è davvero finita? Bisogna aver fiducia nella vita e lasciare che sia essa a decidere il momento in cui dobbiamo partire? O siamo noi a sapere quando e come è meglio andarcene?
Nel film siamo confrontati con un uomo convinto di avere il controllo su tutto e più la notte avanza e più si rende conto che ci sono ancora cose che lo incuriosiscono, che è ancora interessato agli altri e che forse la vita lo solletica più di quanto pensasse. Anche nella vita di tutti i giorni bisogna amare la morte e portarle rispetto, perché l’esistenza stessa di una scadenza fa nascere in noi un desiderio di vivere, di innamorarci, di andare al cinema piuttosto che scrivere un libro.
Questa sua determinazione a voler morire è una sorta di mancanza di rispetto nei confronti della morte. E in qualche modo è come se questa rispondesse: “eh no mio caro… ci vuole ancora un po’ di rimpianto nella tua vita, affinché la morte sia possibile”. Bisogna rimpiangere la vita, altrimenti non ha più senso.
swissinfo.ch: Quanto conta questa nozione di rimpianto, il fatto di sapere che qualcuno sentirà la nostra mancanza?
L. B. : Cosa resta di noi quando moriamo, al di là forse di ciò che abbiamo fatto nella vita, come delle opere architettoniche nel caso di David Miller? Restano i ricordi delle persone che abbiamo conosciuto. E ho l’impressine che il costo della vita, il suo valore, sia legato al numero di persone che abbiamo incontrato, con le quali abbiamo interagito. Gli esseri umani sono animali socievoli. E mi piaceva l’idea che all’ultimo momento, prima di morire, per il protagonista del film si materializzasse la traccia di qualche cosa che poteva rimanere di lui. Morirà, ma in fondo una parte di lui resterà perché ci sarà qualcuno che l’ha visto e che potrà rimpiangerlo. Credo che a volte dimentichiamo che in quanto esseri umani, ciò che ci lega agli altri è il ricordo che avranno di noi. Ed è questo che in fondo dobbiamo coltivare.
swissinfo.ch: Come pensa che sarà accolto il film tra le associazioni di aiuto al suicidio?
“Il nostro lavoro di registi è quello di provocare, nel senso ampio del termine”
L. B.: Non so se saranno particolarmente contente, perché anche se il film è pura finzione, mostra che le persone possono imbrogliare. Come Esperanza, interpretata da Carmen Maura, che finge di essere un’accompagnatrice alla morte mentre è solo una segretaria dell’associazione.
Non mi sono mai posto la domanda e in fondo non mi interessa. Ciò che trovo interessante nel fare cinema, è il dibattito che suscita un film. Ci sono pellicole che non sono piaciute a nessuno, ma è importante che siano state fatte perché hanno suscitato una discussione. Il nostro lavoro di registi è quello di provocare, nel senso ampio del termine. Non forzatamente scioccare, ma creare un dibattito. E sperso che il mio film farà discutere.
swissinfo.ch: Ritiene che un simile dibattito manchi in Svizzera?
L. B. : Sì, ma è un dibattito perpetuo. Gli svizzeri sono stati alquanto moderni ad aver autorizzato rapidamente il suicidio assistito, ma ora siamo confrontati con l’emergenza di nuovi interrogativi. Bisogna permettere anche alle persone colpite da una depressione cronica di ricorrere al suicidio assistito? Lo si può fare anche nelle case di riposo?
Personalmente non ho una risposta. Trovo però interessante che se ne discuta, perché tutto ciò che permette di parlare della morte in modo normale, senza catastrofismi, è interessante.
Il mondo moderno non ci ha più abituati al fatto che la morte è qualcosa di normale e che bisogna essere preparati ad affrontarla. In Sicilia, le anziane signore – una volta passata una certa età – vanno a comprare loro stesse la bara e i vestiti che indosseranno. Preparano tutto, ma non lo fanno in modo triste. Sanno benissimo che un giorno dovranno andarsene e credo che il fatto di dirsi “preparo la mia morte” sia di una grande saggezza. Credo che il dibattito sull’eutanasia permetterà a tutti noi di riflettere al senso dell’idea della morte.
Svizzero di origine polacca, Lionel Baier nasce a Losanna nel 1975. A 12 anni inizia a girare dei film con degli amici e a 15 viene ingaggiato dal cinema Rex di Aubonne prima come bigliettaio e poi come aiuto proiezionista. Debutta alla regia nel 2000 con “Celui au pasteur (ma vision personnelle des choses)”, un documentario dedicato al padre, pastore nel canton Vaud. L’anno seguente in “La Parade (notre histoire)” segue la prima gay pride nel cattolico canton Vallese.
Con questi due documentari si fa conoscere al grande pubblico, per poi passare alla finzione con “Garçon Stupide” (2004) e “Comme des voleurs (à l’Est)” (2006), primo film della tetralogia dedicata all’Europa.
Nel 2013 esce “Les grandes ondes (à l’Ouest)”. La commedia, ambientata nel Portogallo della rivoluzione dei papaveri, è stata acclamata dalla critica francese ed è stata distribuita in Europa e in America Latina.
Nel 2009 Lionel Baier ha fondato la casa di produzione Band à part Films Collegamento esternoassieme ai cineasti Ursula Meier, Frédéric Mermoud e Jean-Stéphane Bron.
Dal 2002, è inoltre responsabile del dipartimento di cinema della Scuola cantonale d’arte di Losanna.
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